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Santuario della Madonna di Scanzano

santuario della madonna della scanzano

Affidato alla congregazione Gesù Maria e Giuseppe (Fondato nel 1722)
Nel 1733, con il permesso dei Padri Gesuiti proprietari del terreno, con i contributi del Marchese Ignazio Pilo e con la manodopera offerta gratuitamente dai confrati, è stato costruito il Santuario della Madonna di Scanzano.

Il santuario sorge nel luogo dove, secondo la leggenda, fu ritrovato da un cacciatore, che inseguiva un daino ferito, il quadro della Madonna della Dayna che ora si trova nella chiesa del convento.
Sempre dalla confraternita, nel 1896 la chiesa venne ristrutturata e ornata con una serie di otto tempere su tela di grandi dimensioni, di cui quattro, dopo il furto degli altri, oggi sono esposti nell’oratorio del paese.

Le tele che attualmente si trovano nel Santuario, sono copie degli originali. Una parte della collezione illustra le vicende della ristrutturazione della chiesa del 1896 e l’altra, illustra la leggenda del ritrovamento del dipinto della Madonna della Dayna.

Convento Madonna della Dayna

convento daynaVerso la fine del XVI secolo, sotto la guida di Vincenzo Beccadelli, figlio e successore di Gilberto e secondo Marchese di Marineo, viene sfruttato anche il picco roccioso a Nord del paese per la realizzazione del Nuovo Convento e Santuario della Madonna del Daino o della Pietà che doveva ospitare i frati francescani del romitorio medievale di Scanzano.
Non si conosce l’anno in cui iniziarono i lavori, si conosce invece quello in cui i frati vi si trasferirono. Siamo nel 1597, a pochi decenni dalle disposizioni di Papa Giulio III che stabiliva il trasferimento degli ordini religiosi dalle campagne nei centri abitati. Così, oltre agli Olivetani chiamati dal Barone Francesco Beccadelli nel 1556 e ai sacerdoti secolari chiamati dal figlio, Marchese Gilberto, nel 1573, anche i frati francescani del piccolo romitorio a pochi chilometri da Marineo, si stabilirono nel nuovo centro abitato.
Il convento costruito alla fine del XVI secolo, non era come quello attuale in quanto lavori di ampliamento, modifiche e restauri continuarono fino a tutta la prima metà del novecento.
Della fine del cinquecento è la chiesa con le due cappelle, gli altari laterali, una parte dell’attuale convento e precisamente l’ala adiacente alla chiesa con il campanile e il piazzale antistante la chiesa realizzato su quattro arcate a tutto sesto sulla roccia. Le altre tre ali del convento, ad una elevazione, attorno al cortile centrale a forma rettangolare, furono costruite nel secolo successivo e nel settecento. Parte degli ambienti del lato nord-est e la terrazza del lato che guarda l’Eleutero, furono aggiunti alla fine della prima metà del novecento per interessamento di Padre G.Tuzzolino.
I tre altari originali della parete di fondo della chiesa sono stati sostituiti con quelli attuali, nel 1751, periodo in cui sono stati applicati anche, sul pavimento ai piedi dell’altare principale, i marmi mischi con stemma vescovile e una lapide con epigrafe ormai indecifrabile. Tra la seconda metà del settecento e la prima metà dell’ottocento, sono state sistemate le tombe gentilizie in tutto il pavimento della chiesa.
La seconda metà dell’ottocento è stato il periodo nero per il convento: allontanati i monaci nel 1866, fu confiscato per essere usato come carcere; divenne rifugio per la gente sfollata durante l’ultima guerra e, infine, abbandonato perché in rovina. La chiesa, rimasta chiusa, venne riattivata agli inizi del novecento dal parroco Silvestre Inglima, mentre il convento riattivato dal francescano di Marineo padre Giuseppe Tuzzolino che dopo l’ultima guerra iniziò l’opera di restauro e di rifacimento. Il ritorno dei frati avvenne nel 1946 e fino a poco tempo fa, il convento, è stato seminario francescano per i novizi. Oggi ospita solo tre frati per il servizio pastorale.
Ottima è la posizione del Santuario: caratteristico è il picco roccioso su cui esso si eleva, lo si può ammirare da tutto il paese e dintorni. Dalla terrazza centrale si può godere di un vasto panorama a 360 gradi di tutto il circondario: un suggestivo scorcio della rocca, tutto il paese, tutta la valle dell’Eleutero e, nelle giornate limpide, anche alcune isole delle Eolie.
Internamente, attorno al cortile si trovano saloni, dormitori, refettorio, cucina e una cappella privata. Nella chiesa aperta al pubblico, sono conservate parecchie opere importanti dal punto di vista storico-artistico; molte di esse sono più antiche dell’attuale paese e del convento perchè furono portate, come ricorda Padre G.Calderone, dagli stessi frati dal luogo di provenienza.
Dalla via S.Francesco si arriva al Santuario per mezzo di una breve strada irta e tortuosa che termina con una scalinata in cima alla quale si trova il piazzale-belvedere dove si affaccia la chiesa. Alla sinistra del prospetto si trova una statua di S.Francesco in vetro resina collocata da recente e un pannello a rilievo in ceramica dove è raffigurata la Madonna del Daino. La ceramica è stata realizzata nel 1969 dal ceramista-scultore di Caltagirone Giuseppe Mariscalco per interessamento di Padre Giuseppe Tuzzolino. Dallo stesso Padre Francescano, sotto la ceramica sempre sulla stessa parete, è stato fatto collocare uno stemma in marmo di Carrara, ritrovato nel convento, appartenente forse ad una famiglia marinese del settecento.
Il semplice portale tardo rinascimentale del prospetto principale della CHIESA, è formato da due esili lesene terminanti con volute e un cornicione sul quale, tra semplici festoni floreali, troviamo la scritta “S.Maria de Dayna Dicatum”. L’attuale porta in legno con figure di Santi intagliati dell’ingresso, è stata realizzata, agli inizi del novecento, dal marinese Realmuto Francesco che con i figli Nunzio e Ferdinando, abili falegnami, operarono a Marineo per tutta la prima metà del novecento. Al disopra del portale si trova una finestra circolare, unica sorgente di luce per la navata interna. La facciata si conclude a capanna.
Nel prospetto laterale della chiesa si può vedere un grande stemma con il simbolo dei francescani: le braccia di Cristo e di S.Francesco incrociate. Lo stemma fu fatto collocare da Padre G.Tuzzolino nel 1949 (assieme ad un altro stemma francescano non più esistente) durante i lavori di restauro del prospetto.
La chiesa, internamente, misura m 15,50×9, ha una pianta quadrangolare e una copertura a botte scemata con teste di padiglione. Nonostante le modifiche subite, l’ambiente rispecchia ancora l’atmosfera rinascimentale delle chiese-aule adatte alla conversazione, realizzate dai Gesuiti nel XVI secolo durante la Controriforma.
Sopra l’ingresso un loggiato in legno, la cui ringhiera sagomata, è stata di recente sostituita con una in profilati in ferro. Le pareti laterali della chiesa sono articolate da semplici lesene doriche e da due cappelle, ancora originari, corredate da altari, del tardo rinascimento, in marmi policromi con decorazioni a rilievo e incisi. Nel 1981, i detti altari, sono stati ridimensionati restringendo la mensa e quindi spostando più indietro i paliotti. A coronamento della navata si trova il lineare cornicione su cui poggia la volta.
La parete di fondo è il lato più ricco e movimentato della chiesa. Vi si aprono tre profonde cappelle intercomunicanti delle quali la più grande è quella centrale che ha la volta a botte a tutto sesto e ospita l’altare principale. Le due cappelle laterali, prima degli ultimi lavori di recupero del 1981, erano poco profonde, non comunicanti con quella centrale e come detto sopra, corredate dagli altari del 1751 in marmi policromi che attualmente troviamo nelle pareti di fondo delle stesse cappelle. Ospitavano: quella di sinistra la statua dell’Immacolata e quella di destra la tela dell’Annunciazione che si trova nella stessa cappella. A quanto pare, la modifica del 1981, ha ridato alle due cappelle laterali della parete di fondo, l’originaria ampiezza.

La tela ad olio di grandi dimensioni della ANNUNCIAZIONE ospitata nella cappella di destra, porta la data 1784 e la firma del palermitano Tommaso Pollaci scolaro di Vito D’Anna.
Non è una delle opere più famose, ma neanche delle più scadenti dell’artista che l’ha realizzata all’età di trentasei anni quando risente ancora dell’influenza del maestro soprattutto nei colori, ma si nota (anche dalle altre opere di questo periodo) che il Pollaci ha già superato la fase iniziale e comincia a delineare quello che sarà il suo vero stile.
Le mani paffute e i visi gentili, raffinati e delicati delle figure dell’angelo e della Vergine, sono alcune delle novità che caratterizzano la sua produzione di questo momento che è il più noto e il più proficui del periodo palermitano del Pollaci. Infatti anche con le altre opere realizzate attorno al 1784 nelle varie chiese di Termini Imerese, il pittore, puntualizza alcuni aspetti della sua maniera.
Semplice è la composizione della tela in questione che si sviluppa, essenzialmente, lungo la diagonale sinistra-destra-alto-basso. In primo piano è rappresentata la Vergine genuflessa su un inginocchiatoio sorpresa dall’annuncio nel momento della meditazione. L’angelo, sospeso, sta a sinistra ed è rappresentato nel momento in cui pronuncia la frase “ti saluto piena di grazie il Signore è con te …”, nella mano destra ha un giglio e con la sinistra addita lo Spirito Santo simboleggiato dalla colomba che è rappresentata in alto tra putti alati. Dalla colomba parte un fascio di luce che investe la Vergine.
Oltre all’autore e all’anno di esecuzione, non abbiamo altre notizie su questa tela, non sappiamo se essa sia stata realizzata per i monaci di questo Convento o se proviene da altro luogo francescano.

Nella cappella di centro si trova una tempera su tavola del XV secolo della MADONNA DEL DAINO O DELLA PIETA’, portata dai frati dal monastero di Scanzano, quando alla fine del XVI secolo si trasferirono a Marineo.
Non si conosce l’autore, ma secondo le opinioni degli esperti, il dipinto è una produzione di Scuola Egeo-Cretese del XV secolo, quindi di origine orientale.
Non sappiamo come la tavola si trovava nel Monastero di Scanzano, può essere arrivata da uno dei paesi albanesi dei dintorni di Marineo, ma è più probabile che sia stata acquistata, nel XV secolo, dagli stessi frati del monastero, quando in tutta l’Italia si commerciavano le tanto apprezzate icòne orientali provenienti direttamente dall’oriente.
Il titolo “Madonna del Daino o della Pietà”, è legato alla leggenda ambientata nel periodo bizantino perché in tale periodo si è sempre ritenuto che fosse stato realizzato il dipinto. E’ solo da qualche decennio, l’attribuzione alla Scuola Egeo-Cretese.
E’ da tenere presente che lo stile con cui furono realizzate queste opere, ebbe origine nel VI secolo durante l’impero Bizantino, stile che si manifestò per tutto il medioevo, si diffuse in tutto l’Oriente e poi in Occidente con la variante di qualche sfumatura.
Per meglio capire questo genere di pittura, è importante ricordare che i Bizantini erano un popolo molto religioso e il loro fine in pittura non era quello di rappresentare le cose terrene, ma il mondo e le immagini dell’aldilà. Secondo i principi cristiani, l’uomo dell’aldilà non è identico a quello terreno, ma formato da puro spirito, senza peso e senza volume. Tale concezione è ciò che emerge nei dipinti bizantini, immagini piatte, senza volume e che non occupano spazio. Anche lo sfondo oro è legato al principio che l’uomo non sa e non può sapere niente dell’ambiente dell’aldilà, perché non possiede nessun riferimento tangibile, pertanto i bizantini hanno risolto il problema impostando le immagini in uno sfondo oro che simboleggia l’immensità del Paradiso.
Per la Madonna col Bambino, predominarono, soprattutto, due tipi di rappresentazioni: “Eleousa” (come quella della Madonna della tenerezza della Matrice) dove è messo in evidenza la maternità e l’affetto tra madre e figlio e “Hodigitria” dove le figure si presentano con un atteggiamento di prestigio da cui emerge la regalità e l’autorità dei personaggi. La Madonna presenta il Salvatore colui che è la Via, la Verità e la Vita e porta le stelle sulle spalle e sulla fronte segno della verginità prima, durante e dopo il parto. L’impostazione è statica, ieratica e con una rigida posizione frontale e assenza di prospettiva.
A quest’ultimo tipo di rappresentazione fa parte l’icona della Madonna del Daino anche se il dipinto, attualmente, non presenta tutte le caratteristiche elencate perché nel corso dei secoli, la tavola, è stata sottoposta a vari rifacimenti (alcuni dei quali piuttosto pesanti) realizzati in occidente secondo lo stile del tempo e del luogo in cui furono effettuati e la parte originaria rimasta è limitata e circoscritta soprattutto al panneggio del Bambino.
La tavola, di piccole dimensioni, rappresenta la Madonna nella posizione di tre quarti con il “Maphorion” (rifatto per cui non presenta più le stelle) sulla testa e sulle spalle ed appuntato davanti sull’abito (originario) a girocollo bordato da una decorazione in oro.
Il braccio sinistro della Madonna, trattiene il Bambino che è rappresentato seduto, vestito da adulto con tunica e mantello e con il volto serio che esprime la sapienza divina, la mano destra è alzata nell’atto di benedire indicando con pollice, indice e medio, le tre persone della SS.Trinità, la mano sinistra, sostiene una sfera sormontata da una piccola croce.
Diversi sono i panneggi delle due figure, proprio perché diversi sono gli stili e i periodi in cui furono realizzati: originario quello del Bambino con caratteristiche della scuola Egeo-Cretese; più recente, frutto di un restauro eseguito in un periodo non facilmente databile, quello della Madonna dove marcato è il senso plastico che rivela un timbro prettamente occidentale e contrasta con la parte originaria. Anche i volti delle due figure, appaiono rimaneggiati.
Nel 1946, in occasione dell’ultimo restauro, il dipinto è stato racchiuso in una cornice d’argento cesellata, e nel 1958 sono state aggiunte le aureole e le corone.
Sotto il dipinto della Madonna del Daino, si trova un rilievo su marmo che raffigura il daino ricordato nella leggenda ambientata nel territorio di Scanzano dove i confrati della Congregazione di G.M.G. nel 1733 hanno costruito l’attuale “Santuario della Madonna di Scanzano”.
“Durante la dominazione bizantina, dal campo trincerato della fortezza di Paropo (successivamente Al Kazan) sul Pizzo Parrino a ovest della Montagnola, usciva un signorotto con servi e cani per la solita battuta di caccia. Avvistato un agile daino, lo inseguono per un lungo percorso quando ad un certo punto, il cacciatore si trova davanti ad una grotta dentro la quale vide il daino ferito con accanto il dipinto della Madonna col Bambino. In quel momento apparve la Vergine che gli dice di non uccidere l’animale, ma di proteggerlo e curare le sue ferite.
Il cacciatore, commosso dalla visione e dalle parole ascoltate, dice ai servi di recarsi al vicino centro abitato di Marineo e raccontare l’accaduto agli abitanti, al gran Castellano e alle autorità ecclesiastiche e di invitarli alla grotta per prelevare il dipinto della Madonna e portarlo in un luogo sacro”.
Lateralmente e al di sopra del dipinto, si trovano due gigli in legno intagliato e dorato e una semplice raggiera con la colomba; il tutto è racchiuso da una cornice in marmo decorata da rilievi neoclassici con in alto il simbolo dell’ordine francescano. Tali elementi, probabilmente sono stati applicati agli inizi del novecento quando la chiesa fu riattivata.
Nella cappella di sinistra, sull’altare, troviamo il gruppo ligneo della PIETA’ eseguito attorno al 1570 nel Monastero di Scanzano da M.Pace di Prizzi. In un documento dell’epoca risulta che il Pace ha realizzato l’opera direttamente nel convento di Scanzano utilizzando legname della zona.
Il gruppo è nominato “Santi a mmunzeddu” per l’insieme delle quattro figure che lo compongono: la Madonna, S.Giovanni, la Maddalena e Gesù Cristo che formano una semplice composizione rettangolare con tre figure verticali collegate dalla quarta orizzontale di Cristo.
In tutta l’opera predomina un forte senso drammatico. La figura di S.Giovanni che occupa la parte destra del gruppo scultoreo, è rappresentata genuflessa su un ginocchio con il braccio destro abbassato e il palmo della mano rivolto a chi guarda, la testa è leggermente reclinata ad indicare senso di dolore.
La Madonna è raffigurata seduta e occupa la posizione centrale, è inclinata sulla destra e sostiene con la mano la testa del figlio, mentre con la sinistra ne trattiene il corpo sulle ginocchia. Lo sguardo sgomento, è rivolto verso il volto del figlio.
La figura della Madonna attira maggiormente l’attenzione perché maggiori sono le sue dimensioni rispetto a quelle delle altre figure del gruppo, perché occupa la posizione centrale, e quindi predomina nella composizione, e perché esercita il ruolo più importante.
Con l’atteggiamento, la posizione e la fisionomia, la figura della Madonna, partecipa in modo determinante al pathos generale di tutto il gruppo.
Sulla destra in una posizione quasi isolata si trova, genuflessa sul ginocchio destro, la Maddalena che è immersa in una profonda contemplazione delle piaghe degli arti inferiori di Cristo.
Nel Cristo l’idea della morte è evidenziata dal corpo rigido e senza tono muscolare e dalla testa afflosciata con la bocca aperta. La posizione del braccio in primo piano, e soprattutto dalle dita, rivela un senso di abbandono.
Le altre tre figure sono coperte da doppio panneggio costituito da una veste ricoperta da un mantello. Il movimento dei panneggi contribuisce, anche se in modo non rilevante, ad esaltare il senso drammatico.
Il gruppo scultoreo, negli ultimi cinquant’anni ha subìto due sommari restauri, uno nel 1981 e uno attorno al 1946. Da testimonianze orali risulta che prima di quest’ultima data la scultura era, in parte, ricoperta con sottili lamine d’oro.
La pietà del convento non è un’opera singolare, un’altra simile, in terracotta, si trova a Caccamo, risale al secolo precedente rispetto alla Pietà di Marineo ed è stata realizzata da un ignoto autore. Le due opere, oltre al tema, hanno in comune lo stesso schema compositivo e tranne qualche particolare, sono quasi identiche.
Altre Pietà esistono a Palermo e in tutta la Sicilia, contemporanee e posteriori a questa di Marineo, e anche se con essa non hanno lo stesso schema compositivo, hanno in comune molti elementi: lo stesso numero di personaggi, il movimento delle chiome, l’accentuato timbro patetico, la centralità della figura di Cristo, l’atteggiamento delle figure… E’ da tenere presente che buona parte di questi gruppi scultorei sono opere derivati da modelli e da idee continentali.
Nella parete di destra, dopo la cappella, in due nicchie realizzate nel 1981 durante i lavori di restauro della chiesa, sono collocate tre statue in legno: l’IMMACOLATA e S.GIUSEPPE CON GESU’ FANCIULLO.
Di queste tre opere non conosciamo nè l’anno di esecuzione, nè l’autore, nè il committente. Sappiamo solo che furono attribuite da alcuni studiosi alla scuola dei Bagnasco e da altri alla scuola dei Quattrocchi. Le opere sono state realizzate verso la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo.
Nel 1990, in occasione dell’ultimo restauro della statua dell’Immacolata, eseguito da Rosolino La Mattina per interessamento della congregazione che ha curato la raccolta dei fondi, è stato effettuato, da Felice Dell’Utri, un interessante studio sull’opera e sugli scultori e scuole operanti nel XVIII secolo nell’ambito del palermitano. Neanche in questa occasione si è arrivati a stabilire con certezza a quale autore o a quale scuola attribuire le tre statue. Comunque si può dire che nelle sculture esistono molti elementi che lasciano intuire che ci troviamo di fronte a delle opere eseguite nella bottega dei Quattrocchi e, forse, da Francesco, in tempi diversi: l’Immacolata prima e S.Giuseppe dopo qualche decennio.
Nella figura dell’Immacolata l’autore mira ad evidenziare l’eleganza e la signorilità proprie del Settecento, creando una scultura che esprime, anche se in una forma non molto accentuata, il fasto dell’epoca. Il movimento del panneggio, il roseo volto incorniciato dalla nera chioma e le paffute mani, danno l’immagine di una signorile dama della aristocrazia palermitana dell’epoca.
Esteticamente ci troviamo di fronte a una bella immagine della Madonna, bellezza voluta e saputa interpretare dall’autore anche perché era proprio questo il fine che egli si era proposto nel realizzare la scultura: dare alla figura della Madre di Dio, la bellezza estetica più rappresentativa del tempo.
Interessante è il movimento frastagliato e irregolare dei panneggi, con andatura pressoché verticali ed obliqui, articolati in modo da ottenere volumi e contrasti chiaroscurali armonici ed equilibrati.
La dinamica composizione a zig zag, ravvivata da una forte tensione ascensionale, è formata dalla immagine della Madonna sopra il globo ricoperto da una nube dalla quale fuoriescono tre testine di cherubini alati (simbolo della Trinità) e la luna crescente con le punte rivolte in basso (simbolo della castità). Due delle teste di cherubini, emergono dal lato concavo per equilibrare un lembo di panneggio che emerge dal lato opposto.
Le mani che stanno sovrapposte sul cuore, simboleggiano il messaggio d’amore verso l’umanità.

S.Giuseppe e Gesù Fanciullo presentano caratteristiche comuni a quelle della statua della Immacolata: il lembo sporgente del panneggio che sta sotto il braccio sinistro dell’Immacolata, il lembo curvo del mantello sul bacino di S.Giuseppe e il movimento delle grinze della tunichetta di Gesù Fanciullo, presentano tutti lo stesso tipo di articolazione.
Le due sculture si presentano meno pregevoli di quella della Madonna, a quanto pare sono state realizzate più tardi quando il neoclassicismo si era maggiormente affermato.
Anche la figura del Santo, come quella della Madonna, si eleva con una leggera curva, è bene armonizzata con quella di Gesù Fanciullo che si trova in basso a sinistra e insieme formano una composizione di tipo triangolare divisa in due parti dalla linea immaginaria che segue l’andamento dalle braccia aperte di entrambe le figure.
Oltre all’Annunciazione del Pollaci, la chiesa è arricchita anche da altre tre grandi pitture ad olio del XVIII secolo di autori ignoti. La prima si trova nella cappella di destra e raffigura la CROCEFISSIONE con in basso cinque figure tra cui quelle di Maria, della Maddalena e di S.Giovanni.
La seconda tela si trova nella cappella di sinistra e vi sono raffigurati al centro, S.GIUSEPPE CON GESU’BAMBINO e lateralmente, S.Francesco e S.Antonino. La terza tela si trova nella stessa parete, dopo la cappella e presenta le immagini di S.ANNA, LA MADONNA BAMBINA E S.GIOACCHINO. Tela restaurata nel 2001 ed eseguita da un nipote di Vito D’Anna, Vito Coppolino che ha operato nella seconda metà del settecento.
Tutte tre le tele, ma soprattutto la prima e la terza, presentano identiche caratteristiche chiaroscurali e identici sono anche i movimenti dei panneggi con lo stesso taglio di grinze. Tela simile a queste è quella dell’Addolorata della chiesa del Collegio, non è escluso che queste opere sono dello stesso autore religioso che preferisce rimanere ignoto. Sempre nella stessa categoria di pittori è da ricercare l’autore di un’altra grande tela del Settecento che è posta davanti la cappella dove si trova la statua dell’Immacolata. Si tratta di una copia dell’Immacolata di Vito D’Anna, realizzata nella cappella di fondo della navata di sinistra della chiesa di S.Francesco di Palermo, pittura rivestita in mosaico nel 1771-72.
Inoltre nella parete dell’ingresso della chiesa, fino agli anni ottanta del novecento si trovavano altre due tele del settecento, da all’ora se ne sono perdute le tracce. Al loro posto, oggi, si trovano due tele della fine dell’ottocento, di medie dimensioni, raffigurano La Buona e Cattiva Morte, delle quali sconosciamo autore e anno di esecuzione.
Nell’angolo sinistro accanto all’ingresso della chiesa, abbiamo la statua in legno dipinto di S.VITO della prima metà del XVI secolo di autore ignoto.
Questa è un’opera che i frati del monastero di Scanzano avevano trasferito dalla vicina chiesetta, ormai in rovina, dedicata a S.Vito, nel loro monastero e di qua al convento francescano.
E’ la scultura in legno più antica del paese ed è una opera rara, del nostro ambiente, per fattura e periodo.
Il Santo tiene con la mano sinistra il Vangelo e la palma del martirio, indossa vestiti d’epoca romana (periodo in cui visse) a disegni e colori vivaci che esalta la giovanile figura del Santo.
S.Vito fu uno dei primi cristiani che si dedicò alla conversione dei pagani. Dall’espressione del volto e dalla posizione del braccio destro che reggeva nella mano un Crocefisso in legno dipinto ancora esistente, ma non più applicato, si deduce che il Santo è stato rappresentato nel momento in cui annuncia il Vangelo.
L’autore ha rappresentato S.Vito nella tipica posizione frontale, dando una certa staticità alla figura che è armonizzata dalle decorazioni dipinte e a rilievo e dagli elementi ritmici delle grinze delle maniche e del gonnellino. Questi ultimi elementi disposti verticalmente, nella composizione, sono contrapposti alle pieghe oblique del mantello che scende dalla spalla sinistra copre il braccio, gira attorno al bacino e termina sulla sinistra della figura con un lembo cadente che serve per controbilanciare il braccio destro sospeso ad angolo retto. Le gambe in posizione di riposo, sono coperte da calzamaglia e calzettoni.
La statua fino alla prima metà del ‘900 non aveva subito restauro e si trovava in uno stato di degrado da essere ritenuta non utilizzabile e quindi non più esposta in chiesa in quanto rovinata dal tarlo in varie parti. Fu agli inizi degli anni del 1950 che il Signor Vitali Domenico di Marineo l’ha recuperata sottoponendola ad un primo restauro che ha evitato la totale distruzione della scultura. Mancavano soprattutto parte del panneggio del mantello che ricade sul bacino del santo, panneggio che è stato ricostruito e dipinto imitando quelle parti di decorazioni pittoriche ancora esistenti. Nel 2001 la statua ha subito un secondo restauro che ha evidenziato la parte ricostruita in precedenza.

La piccola CROCE DIPINTA con l’immagine di Cristo prima accennata, fino a pochi decenni fa completava il decoro della statua di S.Vito. E’ successiva alla realizzazione della scultura e risulta dipinta alla fine del cinquecento da autore ignoto.
In precedenza, la croce dalle dimensioni di cm 40×30 circa con le estremità trilobate, si trovava collocata nella mano destra della statua di S.Vito. Non è stata mai restaurata e si trova in pessime condizioni: del colore steso, in origine, sulla superficie del legno esistono solo dei frammenti; nei capicroci non vi sono figure dipinte e i lobi sono rovinati dal tarlo. Se non si interviene tempestivamente per salvare quello che resta, fra pochi anni, resterà solo un pezzo di legno tarlato.
L’usanza di realizzare la croce dipinta, risale al medioevo e si è affermata soprattutto nell’ambiente pisano e fiorentino dove continuò fino agli inizi del rinascimento. Dei più famosi artisti che l’hanno dipinta si ricordano: Giunta Pisano, Cimabue e Giotto. Più tardi, l’usanza, è arrivata anche in Sicilia dove si è protratta fino al tardo rinascimento, furono realizzate croci di grande e piccole dimensioni e oltre all’usanza arrivò anche la maniera di dipingere che si è fusa con quella spagnola, già esistente, e con quella dei vari artisti locali e furono realizzate croci dipinte con uno stile un po diverso da quello del nord.
La croce di piccole dimensioni del convento, fu una delle ultime realizzate nella Sicilia occidentale dove ne esistono una varietà: grandi e piccole in legno dipinte nel recto e nel verso, e in metallo a rilievo usate anche come croci astili. Di quelle dipinte di piccole dimensioni e dello stesso periodo di questa di Marineo, ce ne sono poche, per cui la croce del convento, come la statua di S.Vito, si presenta come un elemento piuttosto raro del nostro ambiente.
Nella croce del convento, la figura di Cristo è semplice, eretta e con il volto che possiamo definire sereno. E’ diversa da quelle dei crocifissi del periodo precedente, come nella croce dipinta di Alcamo della Chiesa del Rosario del XV secolo, o come le figure di tante altre croci dipinte dello stesso secolo che si trovano nelle varie chiese di Palermo, nelle quali l’artista mirava soprattutto a mettere in evidenza l’aspetto drammatico con la figura di Cristo in un atteggiamento di dolore, dal corpo contorto e movimentato e dal volto sofferente.

La scultura in marmo più antica della chiesa e di Marineo, è un’ACQUASANTIERA che proviene dalla chiesa del Monastero di Scanzano, oggi si trova tra la cappella di destra e quella di centro della parete di fondo della chiesa.
Si evince dalla lettura della stessa, che l’opera fu realizzata nella seconda metà del XIV secolo e presenta un carattere prettamente meridionale.
Scultura unica per il nostro ambiente e si presenta come un’opera d’arte di un certo livello: potente per la forza magnetica che sprigiona, interessante dal punto di vista estetico e ammirevole per la minuziosità decorativa che suscita curiosità ed interesse.
Semplice la composizione formata da una base quadrata, da un fusto e da una vasca a sezione ottagonale. Ogni lato della base presenta tre settori rettangolari, ognuno dei quali contiene un motivo floreale formato da quattro foglie simmetriche stilizzate. Sulla base quadrata poggia quella ottagonale del fusto formata da un allargamento convesso (toro) in basso, una rientranza concava a centro (trochilo) e un secondo allargamento convesso, più ridotto del precedente, nella parte superiore.
Il fusto, a sezione ottagonale, presenta, in ogni lato, una fascia verticale che contiene tre riquadri rettangolari più uno mozzato nella parte superiore. I riquadri racchiudono motivi floreali di due tipi, uno è simile a quello della base, l’altro presenta dei ramoscelli con foglie stilizzate disposte a spina di pesce.
Strano risulta il fatto che la decorazione, nella parte alta, ad un certo punto viene troncata; i casi possono essere due: o che il fusto fu tagliato per abbassare la vasca, oppure che sia un elemento adattato alla scultura. Quest’ultima potrebbe essere l’ipotesi più valida, in quanto il fusto risulta realizzato con un tipo di marmo diverso da quello della base e da quello della vasca.
La base della vasca a forma di calice ottagonale presenta, su facce alterne, quattro scudi triangolari con bordi incisi e negli spigoli, ramoscelli con foglie stilizzate disposte a spina di pesce.
Sui lati della vasca a forma di prisma, si trovano otto immagini a rilievo che hanno fatto discutere gli studiosi. Secondo alcuni, esse sono immagini di Santi tra cui quella di San Francesco che occupa la parte centrale; secondo altri studiosi, invece, sono cinque immagini allegoriche e tre di Santi: S.Benedetto e non S.Francesco, tra S.Scolastica e S.Teresa.
A quanto pare la verità si trova nelle due ipotesi messe assieme. Di figure di Santi ne abbiamo soltanto una: S.Francesco o S.Benedetto perché una è la figura sormontata dall’aureola e precisamente quella centrale. Le altre sette figure sono invece allegorie e solo sotto di due di esse si riesce ancora a leggere il nome per intero: Sapienza e Remissio .
Tutta l’opera e soprattutto le figure sono logorate dall’usura e dal tempo, tuttavia si riesce ancora ad individuare la tecnica scultorea praticata nel periodo bizantino, cioè l’uso del trapano per i particolari più minuziosi. La tendenza bizantina è evidente anche nella figura della Sapienza e soprattutto in quella del Santo in posizione statica ieratica e senza movimento. Mentre le altre figure, con un certo movimento, rivelano il momento di transizione tra la maniera bizantina e quella successiva.
Dallo stato di conservazione attuale si evince che l’opera ha dovuto superare nel passato periodi difficili, ne sono testimoni le ferite e i graffi.
Restano ancora i due CONFESSIONILI in legno scuro che presentano due esempi di intaglio esistenti a Marineo.
Sono stati realizzati appositamente per la chiesa del convento, probabilmente agli inizi del novecento quando la chiesa fu riattivata e presentano in alto al centro, due pannelli ad intaglio con uguali elementi decorativi: le braccia di Cristo e di S.Francesco incrociate, sono circondate da motivi floreali che richiamano elementi Liberty e Neoclassici.
La volta a botte scemata, con teste di padiglione dipinta con colori a tempera, è suddivisa in tre file di riquadri di forma quadrangolare e rettangolare separate da fasce ortogonali decorate con motivi floreali di tipo classico. I riquadri delle file laterali racchiudono simboli francescani, cristologici e mariani, mentre i tre riquadri della fila centrale racchiudono: quello vicino all’ingresso, un dipinto monocromo che illustra la tempesta sedata; quello di centro, che è il più grande, l’Assunzione con i Santi Francesco e Antonino, e quello di fondo, un secondo dipinto monocromo che illustra la parabola del Buon Pastore.
Tutta la decorazione della volta, presenta un forte senso plastico esaltato dagli accentuati effetti chiaroscurali. L’opera è stata eseguita nel 1920 da una cooperativa di pittori palermitani per interessamento del parroco Silvestre Inglima, ed è stata restaurata durante gli ultimi lavori del 1981 dal pittore Petruzzella che ha decorato anche la volta della cappella centrale della parete di fondo.
In questi venti anni, dall’ultimo restauro, l’umidità e le piccole infiltrazioni di acqua piovana dal tetto, hanno causato, nella volta, diverse chiazze di colore mancante, delle quali qualcuna piuttosto vasta. Necessita di un secondo restauro.
Dell’argenteria del Convento ricordiamo il più antico OSTENSORIO di quelli che oggi si trovano a Marineo, risulta realizzato a Palermo prima del 1715 in quanto presenta il marchio con l’aquila a volo basso. E’ in argento sbalzato, cesellato e fuso e porta la sigla DR dell’argentiere Didaco Russo che, secondo gli ultimi studi, risulta documentato nel 1704, ma a quanto pare ha cominciato ad operare prima almeno un trentennio, perché l’ostensorio porta anche il marchio GMRC che, in base alle ultime ricerche nel campo dell’argenteria palermitana, sarebbe quello del console Giuseppe Di Marchisi in carica nel 1669. Quindi secondo questa ricostruzione, l’ostensorio del convento risalirebbe a quest’ultima data.
La decorazione, formata da elementi fitomorfi e teste di cherubini rappresentata per lo più nella base, rientra nello stile del XVII secolo. La base è formata da tre cerchi sovrapposti; è sormontata da un elemento conico su cui si eleva il fusto formato da tre anelli crescenti più uno (delle stesse dimensioni del primo) su cui poggia un globo con la fascia zodiacale. Una statuina in argento fuso dell’Immacolata, è l’elemento di congiunzione tra il fusto e la teca che è racchiusa da una corona circolare con decorazioni simili a quelli della base. La raggiera è formata da puntali e fiamme in argento dorato che stanno in primo piano e da raggi asimmetrici che stanno in secondo piano. L’ostensorio si conclude con una piccola croce greca in argento fuso.

Chiesa di San Michele

chiesa san micheleDove oggi si trova la chiesa di S.Michele Arcangelo in precedenza si trovava una costruzione adibita a tomba gentilizia, edificata in origine fuori dell’abitato per un nobile del tempo di nome Antonio Provenza.
L’idea di trasformare la tomba in chiesa venne dopo la formazione del quartiere, quando la tomba era stata già inglobata dalle abitazioni. Ormai però non solo non vi era più spazio per una piazza antistante, ma addirittura mancava lo spazio per la stessa chiesa e per realizzarla fu necessario invadere la strada adiacente.
La edificazione della chiesa risale alla prima metà del XVII secolo. La sola notizia storica che esiste sull’edificio è del 1630 e si trova nel testamento di Giustina D’Amato (vedova di Antonio Provenza) che aveva acconsentito a trasformare la tomba del marito in chiesa dedicata a S.Michele Arcangelo.
Successivamente, quasi a sopperire alla mancanza di spazio, i Marinesi l’hanno tanto abbellita da farla divenire, per ricchezza decorativa, la seconda chiesa di Marineo. Non esiste una unità stilistica tra interno ed esterno. Esternamente sono visibili il lato posteriore che invade quasi tutta la larghezza della strada adiacente, tranne un piccolo corridoio pedonale di poco più di un metro, e il semplice prospetto principale che si distingue dalle adiacenti costruzioni con un lineare portale, con una grande finestra rettangolare arcuata (unica sorgente di luce per la navata interna) e con un frontone triangolare di origine classica. Sulla sinistra c’è il campanile incorporato alla costruzione.
L’interno è ancora originale. E’ un ambiente piuttosto movimentato e ricco di decorazioni a stucchi, realizzati nel secolo scorso da un autore ancora da confermare. Dallo stile, gli stucchi risultano anteriori di qualche decennio di quelli della volta della Matrice e coetanei di quelli della chiesa del Santuario di Tagliavia, con i quali hanno in comune elementi e caratteristiche tali da farci ritenere che ci troviamo di fronte o allo stesso autore o a un suo stretto collaboratore.
L’ambiente è formato da una sola navata di metri 17,50×6,50 con quattro campate più il presbiterio e con volta a botte scemata. Navata e presbiterio sono separati da un arco trionfale anche esso scemato, sostenuto da due pilastri a sezione quadrangolare accostati alle pareti e decorati, nei tre lati visibili, da lesene scanalate a spigolo smussato con capitelli ionici.
Sull’ingresso si trova un originario loggiato con ringhiera in legno e con pavimento in terracotta. E’ sostenuto da due colonne ioniche.
Al centro, lungo il pavimento della chiesa, tre ossari profondi un paio di metri, conservavano, fino a pochi decenni fa, resti di defunti ora esumati. Lateralmente, sempre sul pavimento, si trovano quattro lapidi (due per parte) del settecento, con iscrizioni ormai in gran parte indecifrabili. Si tratta di tombe gentilizie.
Le pareti laterali sono articolate da sei cappelle (tre per lato) con arco a tutto sesto e corredate da altari con mensa sostenuta da colonnine. Le cappelle sono divise da lesene neoclassiche.
Sulla parete destra accanto all’ingresso, in una nicchia, si trova un rilievo a forma ovale che rappresenta la figura di S.RAIMONDO protettore delle partorienti.

Le prime due cappelle laterali ospitano due grandi tele ad olio del 1876, firmate dal religioso Salvatore Sacco di Montevago. Raffigurano una S.ELIGIO e l’altra S.GIUSEPPE.
Non conosciamo altre notizie sulle due tele e non sappiamo perché si trovano proprio nella chiesa di S.Michele ne chi li abbia commissionate. Esteticamente non sono di gran pregio, ma presentano certe qualità che è bene ricordare.
S.Eligio comunemente detto S.Alò, era un Santo abbastanza noto e venerato nella Marineo dell’Ottocento. Nato in Francia, visse nel VI secolo e praticò vari mestieri dei quali venne proclamato patrono. A Marineo è ricordato ancora oggi come protettore degli animali e in particolare di quelli da soma.
Nella tela, S.Eligio è rappresentato mentre guarisce la zampa anteriore spezzata di un cavallo. I contadini marinesi, fino a poco tempo fa, quando i loro animali stavano male, li conducevano davanti alla chiesa di S.Michele raccomandandoli a S.Alò.
La composizione, impostata in un paesaggio collinare, è a forma rettangolare lunettata di cm 250×150. E’ composta da due coppie di figure: a sinistra quella del cavallo e del suo padrone che gli sostiene la zampa monca ed a terra la parte dell’arto staccata, e a destra, S.Eligio e un chierichetto. Il Santo, con il bastone pastorale (perché a tarda età fu nominato Vescovo), è rappresentato nel momento in cui sta per compiere il miracolo, indossa il camice, la stola e la cappa ed in testa ha la mitra; con il braccio destro alzato benedice in nome della SS.Trinità.
Quello che nel dipinto lascia a desiderare, è la impostazione delle due figure laterali: il chierichetto e soprattutto il cavallo, tagliate dalla linea marginale del dipinto.
Anche se l’autore non è particolarmente valente nell’elemento compositivo, mostra di possedere un acuto spirito di osservazione, senso cromatico e decorativo e riesce a rappresentare anche i particolari più minuziosi con una certa sicurezza. Le espressioni realistiche delle figure, le zampe del cavallo e i particolari dell’abito talare del Santo, dimostrano un particolare talento dell’autore.
La tela, dopo il recente restauro del 1994 fatto eseguire dalla congregazione di S.Michele Arcangelo, è in buone condizioni.
Il dipinto di S.Giuseppe dalla stessa forma e dalle stesse dimensioni di quelle di S.Eligio, rappresenta il Santo con in braccio Gesù dormiente. Le due figure, che occupano la posizione centrale della composizione, sono impostate in un ampio paesaggio di campagna con a destra, sullo sfondo, la sagoma di una città e sono fiancheggiate da esili alberelli in un prato verde con fiori in primo piano.
La figura di S.Giuseppe appare come quella di un anziano padre affezionato al proprio figlio di cui ha la massima cura e a cui volge ogni minima attenzione. Il suo realistico volto ha una espressione lieta e soddisfatta mentre contempla la paffuta figura del fanciullo che riposa poggiando la testa sulla spalla del padre. Il fanciullo, che si presenta con braccia e mani rilassate, è coperto da una semplice tunichetta.
L’autore ha saputo cogliere un delicato e felice momento della vita di S.Giuseppe, esteticamente però non ha saputo dare alla figura del Santo, un aspetto armonico ed elegante. Infatti è coperto da un abbondante panneggio che lo rende goffo e pesante soprattutto nella parte inferiore, rendendo la composizione poco aggraziata.

Una statua in legno del tardo ottocento e di autore ignoto raffigurante S.TERESA, è collocata nella cappella centrale di destra. Nella terza cappella di destra, si trova la statua settecentesca di S.MICHELE ARCANGELO eseguita da un ignoto autore. L’Arcangelo, raffigurato con le ali dietro la schiena, indossa la corazza e il gonnellino e regge con la mano destra alzata una spada e con la sinistra una bilancia.
Nella cappella di sinistra, troviamo una bella e armoniosa immagine di CRISTO CROCEFISSO del XVIII secolo di cm 100×80. Il Crocefisso è stato posto in questa cappella nell’ottocento, quando, assieme alla chiesa, è stata decorata con la raggiera, sullo sfondo, e i simboli della Crocifissione. Nella stessa cappella, in basso, si può vedere anche una tela ad olio di piccoli dimensioni del XIX secolo con l’immagine della ADDOLORATA, tela che si trova ancora in discrete condizioni.
Tra le cappelle e il cornicione, le pareti sono decorate con stucchi a motivi floreali diversi tra loro.
La volta a botte scemata, che racchiude tre file di riquadri separati da fasce ortogonali, offre una fredda e minuziosa decorazione a stucchi che rappresentano motivi fitomorfi. Al centro dell’arco trionfale si trova un festone con teste di putti e la seguente scritta “Quis Ut Deus?”.
Il presbiterio è l’ambiente meglio decorato e meglio conservato di tutta la chiesa. La parte bassa della parete di fondo è occupata da un prezioso altare neoclassico della prima metà dell’ottocento in marmi policromi che è addossato alla parete. Si compone di quattro pannelli in marmo sulla mensa arricchiti da due intagli in legno, dorato che rappresentano l’offerta di Melchisedec, da un ciborio cilindrico sormontato da una cornice aggettante sostenuta da quattro colonnine che racchiudono la porticina e della mensa sostenuta da colonnine. Ai lati della mensa si trovano altri due intagli su legno che rappresentano figure di Santi molto simili, come maniera e come manifattura, a quelli che si trovano nell’altare della chiesa di Tagliavia. Sotto la mensa, in data non precisata, è stato collocato un piccolo sarcofago che dovrebbe contenere le ossa di Giustina D’Amato. Due vasi in marmo decorati con festoni floreali, sono collocati ai lati del sarcofago.
La parete di fondo è decorata con pannelli rettangolari a stucchi e con quattro lesene che inquadrano la nicchia dove si trova una interessante statua in legno della seconda metà del XVIII secolo raffigurante la MADONNA DEL CARMELO.
Di questa opera nessuna notizia abbiamo e nessun documento possediamo che ci possa indicano l’autore, il committente e la provenienza. Probabilmente è stata commissionata dalla congregazione della Madonna del Carmelo, insediatasi nella chiesa entro la prima metà del XVII secolo. Il bozzetto della statua, secondo informazioni raccolte, fino a poche decine di anni fa esisteva ancora. Ora se ne sono perdute le tracce.
Ci troviamo di fronte ad una bella immagine, sia dal punto di vista estetico che per il suo movimento plastico di tendenza classica.
L’artista ha voluto sbizzarrirsi in una ricerca minuziosa di particolari, soprattutto nella resa dei panneggi che ha curato centimetro per centimetro sfruttando con intelligenza tutta la superficie.
La Vergine con il braccio destro tiene il Bambino benedicente e poggia su una nuvola col piede sinistro e col piede destro su una mezza luna sotto alla quale sono due puttini alati.
Interessante è il doppio panneggio che ricopre la figura, costituito da una veste movimentata da minuziose pieghe frastagliate che seguono un andamento pressochè verticale e da un mantello sovrapposto che copre la figura in modo parziale con un movimento di pieghe ad andamento obliquo.
Questa diversa disposizione delle grinze di entrambi i panneggi, dà origine ad un insieme di valori chiaroscurali contrapposti che armonizzano tutta la composizione della statua rendendola gradevole alla vista dell’osservatore.
Decine sono le statue di Madonne realizzate in questo periodo nell’ambito del palermitano e numerosi gli autori che le hanno eseguite. Non mancarono le influenze soprattutto nella impostazione delle immagini e a volte anche nella maniera. Ma gli artisti più dotati lasciarono, nelle loro opere una impronta particolare, per cui anche se le opere non sono firmate o documentate, spesso si riesce grazie a questa impronta, ad attribuirle ai vari autori.
Nel XVIII secolo, le scuole più importanti che operarono nell’ambito del palermitano furono: quella dei Serpotta, dalla seconda metà del XVII alla seconda metà del XVIII secolo; quella dei Quattrocchi, dalla prima metà del XVIII alla prima metà del XIX secolo e quella dei Bagnasco, dagli inizi del XVIII alla prima metà del XIX secolo.
Nella statua della Madonna del Carmelo della chiesa di S.Michele, è evidente l’impronta della scuola dei Bagnasco. Nella quale operarono vari componenti della stessa famiglia che realizzarono molte opere. I caratteri formali della statua della Madonna, risultano più vicini a quelli rivelati dalla mano di Girolamo.
Entrambi le pareti laterali del presbiterio presentano due decorazioni perfettamente uguali con il medesimo tema formato da due lesene neoclassiche, che racchiudono quattro pannelli a stucchi di cui tre rettangolari ed uno quadrangolare che nella parte centrale presenta l’immagine di un angelo a mezzo busto. Tale particolare e altri motivi decorativi della chiesa, sono quegli elementi che maggiormente si avvicinano alle decorazioni che rientrano nello stile rococò e sono i particolari che ci fanno ritenere che gli stucchi sono precedenti a quelli della Matrice.
La volta del presbiterio è la parte più bella e preziosa di tutta la chiesa. E’ forata, alle basi, da due piccole finestre (di cui una sola funzionale), ed è decorata da cinque pannelli a stucchi racchiusi da fasce che vanno da una base all’altra della volta. Dei cinque pannelli, quattro hanno la forma rettangolare, sono disposti simmetricamente nelle estremità laterali e presentano a due a due gli stessi motivi decorativi. Il quinto pannello, che occupa la parte centrale, ha la forma quadrangolare e racchiude un motivo decorativo a raggiera.
Tutta la decorazione a stucchi su fondo azzurro è stata applicata dopo un paio di secoli dalla edificazione della chiesa. Come nella Matrice e nella chiesa del Santuario di Tagliavia, troviamo predominante l’elemento floreale che richiama lo stile rococò e quello neoclassico. Come importanza e valore artistico, si può dire che le decorazioni sono sullo stesso piano, ma non si può dire che le decorazioni delle tre chiese sono della stessa mano. Per quelle della Matrice, sappiamo già chi le ha eseguite e così anche per quelle della chiesa del Santuario di Tagliavia. Per gli stucchi della chiesa di S.Michele, data la forte affinità con quelli di Tagliavia, si può benissimo pensare a G.B. Noto o un collaboratore a lui molto vicino, ma manca un documento scritto per poterlo affermare.
Purtroppo negli ultimi anni, una infiltrazione di acqua piovana ha rovinato gli stucchi e la struttura in legno della volta e una rilevante parte di decorazione delle pareti. Con un recente restauro portato a termine nel 1996, oltre al recupero della struttura sono stati restaurati anche gli stucchi della volta. Resta ancora da restaurare e da ricostruire buona parte degli stucchi delle pareti.

Chiesa delle Anime Sante

chiesa anime santeIl primo documento ufficiale riguardante alla chiesa delle anime sante risale al 29 Agosto del 1577. E un atto di assegnazione da parte di Pietro La Vigna ai Rettori, amministratori della congregazione del nome di Gesù e del Miseremini che ebbe origine a Marineo nel 1570. Il 20 Dicembre 1727 nacque la chiesa vera e propria e venne incorporata dal monastero attiguo delle Cappuccine, fondato da Nicolò Pilo con il contributo del sac.Salerno e Giuseppe Pilo.  Dell’antico e grande monastero resta oggi soltanto qualche traccia, come le grate claustrali all’esterno. Esso comprendeva al suo interno un giardinetto con un cimitero per i benefattori e per gli iscritti alla congregazione del Misiremini, che prestavano assistenza ai moribondi. Quando nel 1730 le suore si trasferirono nel Collegio di Maria, il vecchio monastero cadde in disuso. Nel1860 il monastero fu utilizzato come ospedale, fu anche caserma per i garibaldini. La chiesa versò in uno stato di grave degrado e abbandono e fu necessario un intervento di ripristino, che avvenne nel 1974. Al suo interno è conservato un dipinto ad olio su tela del 1881 raffigurante le Anime Purganti.

Chiesa di Sant’Antonino

chiesa s. antoninoNel piano di fabbricazione del quartiere di S.Antonino fu prevista la esistente piazzetta con prospiciente la sede della congregazione della Madonna della Mercede istituita a Marineo nell’anno 1600. Ma la sede della congregazione non era destinata a rimanere tale perché prima del 1660 fu trasformata in chiesa; è proprio di questa data il primo documento che parla della chiesa di S.Antonino.
Ottima è la posizione in cui si trova. Si affaccia nella piazzetta che le dà aria e respiro e gode di un posto preminente dal punto di vista urbano.
Da quando fu costruita, la chiesa ha subito diversi restauri a causa del terreno poco stabile su cui si trova. L’ultimo restauro risale alla fine dell’ottocento quando fu rifatta tutta la volta.
Il prospetto principale è semplice e si conclude in alto con un frontone triangolare di origine classica. Sulla porta d’ingresso si trova una piccola nicchia che in origine doveva servire a contenere una scultura. Al disopra della nicchia si vede una finestra circolare che, oltre a fornire luce all’interno, ha una funzione decorativa. Sulla sinistra del prospetto, incorporato alla costruzione, il campanile.
Internamente sono evidenti le aggiunte, le modifiche e le ristrutturazioni effettuate nel corso dei secoli. L’interno formato da un unico ambiente rettangolare di metri 13×7,50, modesto per dimensioni, ma abbastanza luminoso. Richiama la pianta ad aula simile a quella della chiesa del convento. Sull’ingresso si trova una secentesca loggia che si affaccia nella navata con quattro archi scemati sostenuti da colonne, nel piano inferiore, e da pilastri, in quello superiore. La diversità degli elementi di sostegno, è dovuta al rifacimento del piano superiore danneggiato, nella seconda metà dell’ottocento, dal crollo della volta che fu poi ricostruita nel 1893.
La copertura a botte poggiante sul cornicione secentesco, è forata alle basi da sei finestre quadrangolari (tre per lato) e contiene nella parte centrale una pittura con l’immagine di S.Antonino e Gesù Bambino.
Nelle pareti laterali vi sono sei nicchie (tre per lato) con arco a tutto sesto separate da semplici lesene doriche. Le due nicchie centrali sono fornite di altari secondari di stile neoclassico decorati con pannelli in marmo a basso rilievo, raffiguranti motivi floreali. Nella nicchia di sinistra troviamo un Crocefisso, mentre in quella di destra si trova una tela ad olio di grandi dimensioni dove sono raffigurati S.ANTONINO CON GESU’ BAMBINO e festosi putti. La tela è stata realizzata nel 1889 da Rosalia Ballesteros della famiglia dei Marchesi della Fattoria di Acqua del Pioppo. Marchesi ricordati come frequentatori della chiesa di S.Antonino.
La parete di fondo è priva di decorazioni perché è stata ricostruita in seguito al crollo dovuto ad un movimento di terreno. Vi è collocato l’altare maggiore realizzato in marmo bianco con bordure rosse ed arricchito con rilievi a motivi floreali simili a quelli degli altari laterali. I tre altari dell’ottocento, sono stati ristrutturati nel 1906.
Al di sopra dell’altare principale, in una semplice nicchia, si trova una statua in legno della prima metà del XIX secolo, recentemente restaurata. Rappresenta la giovanile figura di S.ANTONINO che tiene con la mano sinistra un giglio, simbolo della purezza, e con la mano destra un libro. Della statua si sconosce l’autore e qualsiasi notizia storica.
Nella chiesa, inoltre, si trova un dipinto ad olio di medie dimensioni del XVII secolo di autore ignoto. Non esistono notizie sul dipinto, ma è probabile che fu fatto eseguire dalla congregazione della Madonna della Mercede. L’opera si presenta piuttosto misteriosa e non di facile comprensione in quanto ricca di simboli e di allegorie.
Come le tele della Buona e Cattiva Morte della Matrice, è una pittura didascalica e narra, attraverso simboli, la vita mistica ed operosa di S.RAIMONDO vissuto tra il XII e il XIII secolo.
Nominato canonico penitenziere, collaborò attivamente per sostenere l’ordine dei Mercedari che aveva il compito di riscattare i Cristiani fatti prigionieri dai Maomettani e fondò la Congregazione della Madonna della Mercede che, come detto prima, a Marineo fu istituita nel 1600 ed insediata nella sede che poi fu trasformata in chiesa dedicata a S.Antonino.
S.Raimondo fu maestro generale dell’Ordine Domenicano, fu nominato patrono delle partorienti ed ebbe ancora tanti altri incarichi.
Bella la composizione ad “X” che, approssimativamente, si sovrappone lungo le diagonali del quadro. In alto, sulla sinistra circondato da nuvole, è raffigurato un ostensorio con ostia consacrata, dalla quale parte un fascio luminoso che investe la figura del Santo in ginocchio e chinato in avanti con la corona di spine sulla testa, un lucchetto sulle labbra e le braccia incrociate in atteggiamento di umiltà. Sulle spalle porta una leggera cappa con bordi rosso vivo, sotto la quale ha la cotta e il camice sacerdotale.
La corona di spine sulla testa potrebbe simboleggiare la partecipazione alla passione di Cristo e la sofferenza sopportata con pazienza dal Santo; il lucchetto con catena sulle labbra ricorda quello che i musulmani gli applicarono, dopo di avergli forato le labbra con un ferro rovente, per evitare che predicasse il Vangelo nei luoghi dove si era recato in missione.
In alto sulla destra, un angelo mostra i meriti del Santo: un giglio e la palma con tre corone simboli della purezza, del martirio e delle virtù praticate dal Santo.
In basso a sinistra su un tavolo, troviamo il teschio simbolo della morte, il Crocefisso e gli strumenti di supplizio che il Santo usava: corda, catena con spine ecc. Sempre in basso a sinistra, si legge: “S.RAYMUNDUS NONNATUS PROTECTOR PARTURIENTIUM ET AFFLIECTORUM”. Il Santo fu proclamato patrono delle partorienti perché era un non nato, nato cioè non con un parto naturale, ma prelevato direttamente dall’utero della madre morta durante il travaglio; degli afflitti perché fu un penitenziere e un penitente.
Attraverso la lettura dell’opera si intuisce che l’ignoto autore, probabilmente religioso, ha voluto mettere in risalto, principalmente, quel lato della religiosità che valorizza la sofferenza ed il dolore. Infatti nel dipinto predomina una atmosfera drammatica. Il pittore non è un valente esperto del pennello, ma un autodidatta ricco di immaginazione.
La tela, dopo l’ultimo restauro del 1987 eseguito da Frate Francesco nel Santuario della Madonna del Daino di Marineo, è in buone condizioni.
In occasione della mostra sacra del 1989, in un angolo della loggia della chiesa, abbiamo rinvenuto quasi per caso un CROCEFISSO IN LEGNO del XVII secolo da tempo attaccato dal tarlo che ne aveva già logorato parte della figura. Dell’arto superiore destro mancano tutte le dita e di quello sinistro metà dell’avambraccio con tutta la mano. Inoltre sono state rosi un piede e parte del perizoma che avvolge il bacino. Nell’ultimo restauro del 2001, oltre a riportare alla luce l’originale colore oro del perizoma, sono state ricostruite tutte quelle parti mancanti dell’immagine.
Cristo è rappresentato con il corpo afflosciato e il capo reclinato; segno che l’ignoto autore lo ha voluto raffigurare privo di vita e precisamente dopo avere spirato. L’autore, scegliendo di proposito il momento in cui nella persona di Cristo non traspare più la sofferenza, ci lascia intendere chiaramente che sua intenzione è presentarci non il mezzo, ma il fine della passione e morte di Cristo.
Infatti anche se la Crocifissione è un tema tragico, da questa figura di Cristo scaturisce calma e serenità: “il sacrificio è stato compiuto, l’umanità è riscattata”. E’ espresso, in questa opera, un concetto diverso da quello del Crocefisso, che si trova nella chiesa omonima, dove si evidenzia invece il momento più drammatico della passione di Cristo, cioè quello che precede la morte e dove il morente è cosciente di avere solo pochi attimi di vita e rivela quella tensione nervosa che rende i muscoli tesi.
Oltre alla ricerca psicologica, il Crocefisso della chiesa di S.Antonino, presenta interessanti aspetti estetici e formali, come il movimento ritmico dei capelli che scendono dalla testa lungo le spalle ed il petto con andamento a spirale accentuato da linee incise e parallele che seguono l’arricciamento dei capelli.
Di questa immagine di Cristo l’autore se ne è servito per esprimere le sue conoscenze delle esperienze rinascimentali. La ricerca della bellezza naturale delle forme, la ricerca dei volumi ed la ricerca dell’elemento anatomico, determinano sulla superficie del corpo di Cristo un gioco di luci ed ombre che rendono armonica la figura.
Niente sappiamo della storia di questa opera e neanche dell’autore tranne che nell’ambito del palermitano esistono altre opere simili dello stesso secolo e sempre di autore ignoto. Il Crocefisso, per la bellezza estetica e per la singolare rappresentazione, resta una delle più belle sculture lignee del paese.
Della ricca argenteria della chiesa di S.Antonino, ricordiamo una preziosa PISSIDE del 1776. E’ in argento sbalzato, cesellato, inciso e fuso. Porta il marchio di Palermo dell’aquila a volo alto con la sigla RVP, la sigla AB76 del console Antonino Lo Bianco in carica nell’anno 1776 e la sigla AGN dell’argentiere Agostino Natoli.
E’ la più bella e la più lavorata pisside che abbiamo a Marineo, decorata con elementi che rientrano nello stile rococò. Ha una base mistilinea graduata che presenta, nella parte superiore, tre volute sormontate da conchiglie stilizzate diverse l’una dall’altra. Le volute dividono la superficie della base in tre spazi triangolari decorati da piccole volute e da motivi floreali con rosette e con foglie d’acanto.
Il fusto racchiude tre nodi formati da tre accartocciamenti ciascuno e da un elemento attorcigliato su cui poggia la coppa decorata da una sottocoppa sbalzata con elementi vari: volute, pampini, grappoli d’uva e spighe.
La decorazione del coperchio è simile a quella della base con tre volute ed elementi fitomorfi negli spazi triangolari. Due degli elementi decorativi sono uguali ed uno è diverso. La pisside si conclude con una piccola croce apicale su un globo in argento fuso.

Chiesa di Gesù, Maria e Giuseppe

chiesa gesu maria giuseppeL’oratorio e la chiesa furono fondati nel 1722. L’oratorio detto dei “burgisi” era riservato solo a tale categoria di persone.

E’ sede della congregazione che fu fondata nel 1722 ed approvata nel 1726. La congregazione ha anche la custodia della chiesetta dello Scanzano. L’impianto della chiesa è ad aula.

L’interno è spoglio, ma abbellito da un grande quadro raffigurante la Sacra Famiglia risalente al 1939, opera del pittore N. Rainieri.

Chiesa del SS. Sacramento

chsacramentoDedicata in origine a S.Maria, fu fondata nel 1556 da Francesco Bologna. E’ la più antica chiesa del paese.Accanto venne costruito il Monastero che fu fondato dai Padri Olivetani. Nel 1784 i monaci Olivetani che occupavano la chiesa furono cacciati, per problemi di litigi interni al paese e la chiesa ed il monastero divennero di regio diritto. Nel 1870 venne cacciata la milizia,che aveva occupato la Chiesa. Il 29 Aprile 1900 l’arciprete Fiduccia riaprì la Chiesa al culto.

Il Monastero fu trasformato in ospizio poi fu utilizzato per molti anni come Caserma dei Carabinieri ed in seguito ospitò una scuola. Attualmente è sede della Fondazione Arnone.

La Chiesa si presenta ad un’unica navata con scarsa decorazione. Nelle pareti laterali vi sono due semplici altari, mentre troneggia sull’altare maggiore il grande Crocifisso Ligneo del 16°secolo. La statua fu scolpita da uno dei monaci olivetani.All’interno della Chiesa, oltre al celebre Crocifisso,è possibile ammirare un dipinto a olio su tela di notevoli dimensioni del 18°secolo, raffigurante la Madonna con S.Ciro e S.Rosalia.

La chiesa ha subito vari rimaneggiamenti nel corso dei secoli,recenti lavori di manutenzione ne hanno alterato l’aspetto esterno. Quando la Chiesa nel 1866 fu occupata dai militari, fu chiusa e le statue, le campane e gli altari furono trasferite in altre chiese. Il bevaio, antistante la Chiesa del Crocifisso è già richiamato negli atti del 1556-60 riguardante Marineo, in contratti di compravendita delle prime case costruite da Francesco Bologna.

Chiesa del Crocifisso

chcrocifissoIl Monastero con annessa la chiesa di S.Maria oggi chiesa del Crocefisso, è il primo monumento religioso di Marineo. Fu edificato agli inizi della baronia di Gilberto Beccadelli mentre si edificavano le prime case e il lavatoio pubblico “Gurghiddu”. L’iniziativa era stata del Barone Francesco Beccadelli che notando il forte incremento della popolazione e la rapida espansione del paese, si era rivolto ai Padri Olivetani del Monastero di “S.Maria del Bosco” di Bisacquino per avere, a Marineo, una guida pastorale.
Il sei Luglio del 1556, dopo tre anni dall’inizio dell’insediamento e nove giorni prima della morte del Barone Francesco, da Gilberto Beccadelli (che due giorni prima era stato investito della baronia di Cefalà) e dall’abate del Monastero di S.Maria del Bosco di Bisaquino Don Refrigerio da Lodi, a Palermo nello studio del notaio Giacomo Capobianco, fu stipulato l’accordo per la costruzione in Marineo di un Monastero residenza dei Padri Olivetani e di una chiesa per l’esercizio parrocchiale. Le costruzioni dedicate a S.Maria, nel giro di poco tempo erano in condizioni di potere essere utilizzati, infatti il primo registro parrocchiale dove sono registrati battesimi e matrimoni amministrati nella chiesa di S.Maria, porta come prima data 22 Novembre 1556 giorno in cui fu battezzata Laura Di Trapani.
Il Monastero e la chiesa annessa, furono fatti costruire, dai monaci, accanto alle abitazioni su una balza rocciosa poco elevata che dominava il caseggiato di allora. La chiesa rimase attiva per l’esercizio parrocchiale fino al 1562, anno in cui fu aperta al culto l’attuale Matrice fatta edificare dal Barone Gilberto.
Dieci anni dopo, nel 1572, il nuovo abate del Monastero di S.Maria del Bosco, Matteo D’Aversa, ha richiamato i monaci e venduto il Monastero di Marineo al Marchese Gilberto. Operazione che fu condannata e disapprovata dal Papa e dal Generale dell’ordine degli Olivetani che ha ordinato, al successivo abate, di rimandare i monaci a Marineo, ma questi, ritornati in paese, trovarono alla guida della parrocchia i sacerdoti secolari (chiamati dal Marchese Gilberto) e il primo parroco, nominato nel 1573 dall’Arcivescovo di Palermo Mons. Marullo.
Gli Olivetani rimasero nel Monastero, a svolgere il loro ministero, fino al 1784 quando furono richiamati definitivamente e dopo due anni, la chiesa, ormai chiamata del Crocefisso per l’originale scultura che si trova nell’interno, con Reale Dispaccio del 13-5-1786 divenne di regio diritto e affidata al parroco. Nel 1866, il monastero, che per vari decenni era stato utilizzato per fini sociali, e la chiesa, furono occupati dai militari e nel 1870 confiscati per essere usati come deposito.
La chiesa venne spogliata di tutti gli arredi sacri compreso il cinquecentesco altare maggiore in marmi policromi che fu rimontato nell’Oratorio dei Mastri dove ancora si trova, mentre il Crocefisso e la statua di S.Pietro furono sistemati nella chiesa di S.Anna.
La riapertura al culto della chiesa, da parte dell’Arciprete Salvatore Fiduccia, avvenne alla fine del secolo e nell’anno 1900 si inizia il riordino dell’interno. Furono reclamate tutte le opere di cui la chiesa era stata spogliata, ma dopo vari contrasti la sola opera che ritornò nel luogo d’origine fu il Crocefisso. Le altre opere che attualmente si trovano nell’interno della chiesa, furono realizzate con i contributi dei fedeli.
Il MONASTERO, nel 1898 con atto di compravendita n.2654 del 23-Luglio, fu acquistato dall’Amministrazione Provinciale di Palermo e fino al 1976, fu adibito a caserma dei carabinieri e poi a scuola. Dal 1988 è sede della fondazione G.Arnone. Dichiarato inagibile nel 1997, è in attesa di restauro.
Tutto il complesso e soprattutto il Monastero che è stato adibito a vari usi, internamente, ha subito delle modifiche che però non hanno intaccato la struttura portante. Presenta le stesse caratteristiche di quelle del palazzo costruito tre anni dopo e come nel palazzo si possono ancora notare, nei vari ambienti, spesse mura e possenti volte a botte che sono state realizzate anche con pianelle di pietra e malta. Data la posizione dell’edificio innalzato su un terreno in pendio, tutto il complesso si sviluppa in più piani digradanti rispetto alla piazza antistante. Nella planimetria della figura 27, si è cercato di presentare la costruzione così come era stata realizzata dai monaci nel 1556.
Si entrava nel Monastero dall’ingresso attuale che sta a destra guardando il prospetto della chiesa, ci si trovava in un lungo e spazioso corridoio con copertura a botte a tutto sesto e un’ampia finestra nella parete di fondo. Nella parte estrema della parete di sinistra, si trovava un’apertura che metteva in comunicazione il monastero con la chiesa, mentre lungo il lato di fronte all’ingresso, si possono ancora vedere le singole celle (anche con volte a botte) per i monaci. Dall’estremità destra del corridoio, oggi, si accede in un vasto ambiente ricostruito. Con molta probabilità, questo lato del monastero, nell’ottocento, è stato danneggiato dalla frana per cui non possiamo sapere come, in origine, era suddiviso e quali ambienti vi si trovavano. Nella originaria parete della cella adiacente si può ancora vedere la base da dove partiva la volta a botte dell’ambiente.
Da una delle celle della parte centrale del corridoio, attraverso una scala, si può scendere nei piani inferiori che tranne lievi modifiche, presentano ancora la struttura originaria. Si trovano ambienti angusti e ambienti spaziosi ma poco illuminati, anche questi sono coperti da volte a botte. Nell’ambiente più vasto del lato est del monastero, si trova una botola con scala che portava alla strada adiacente al lato nord dell’edificio. Sempre nel lato nord si trovano tre ambienti di cui due, quando il monastero fu usato come caserma, furono adibiti a celle carcerarie. La volta a botte dell’ambiente più grande che si trova sotto il pavimento della chiesa, ha alla base una cornice cinquecentesca, è decorata con modanature lineari e poggia su un grosso pilastro a sezione quadrangolare aggiunto nell’ottocento quando per la frana si è temuto il crollo della volta. Quest’ultimo ambiente che si trova sotto il presbiterio, in origine, funzionava da cripta ed era in comunicazione, con la chiesa, mediante una scala attualmente murata.
LA CHIESA presenta ancora degli elementi originari scampati ai restauri e modifiche (interni ed esterni di questi ultimi decenni) che hanno sanato la struttura muraria, mantenuto efficiente il luogo religioso e creato altri ambienti. I vari elementi architettonici originali che oggi la chiesa presenta, mettono in rilievo la semplicità e la struttura lineare della costruzione che si inquadra in quella schiera di architetture artisticamente modeste di cui, dobbiamo dire che, Marineo è ricca. L’importanza del complesso, più che artistica, è soprattutto storica.
Esternamente la chiesa presenta un semplice prospetto principale a capanna (con ingresso e un’ampia finestra unica sorgente di luce per la navata interna) e due campanili di cui uno posteriore incorporato alla costruzione e uno anteriore accostato al prospetto principale. Trovare due campanili in una chiesa di non ampie dimensioni come questa, è un fatto piuttosto insolito, ma in questo caso, è legato all’ampliamento del paese.
Quando la chiesa fu costruita, il primo campanile fu collocato nella parte posteriore dell’edificio perché questo era il lato che guardava verso il paese ed essendo, la chiesa, più alta dell’abitato del tempo, non fu necessario realizzare un campanile sviluppato in altezza. Nel secolo successivo quando il paese cominciò ad estendersi verso Sud-Ovest, nasce la necessità di un secondo campanile che fu realizzato con tre elevazioni e con volte a crociera superando la quota del corpo chiesa. Dato che la sua realizzazione è successiva, il nuovo campanile, si trova distaccato dal prospetto.
Internamente la chiesa è ad unica navata di metri 20×6 e ha la copertura a botte a tutto sesto con teste di padiglione ed è articolata da semplici pennacchi. Il presbiterio con copertura a padiglione, è separato dalla navata, da un semplice arco trionfale.
Sull’ingresso c’è un arioso loggiato, rimaneggiato e sostenuto da otto colonne ioniche in muratura di cui solo due portanti e sei finte addossate alle pareti, è illuminato dalla grande finestra del prospetto principale.
Lungo le pareti laterali, dopo la riapertura della chiesa, con le offerte degli emigrati nel 1903 sono state realizzate, nelle uniche due cappelle, gli altari in marmo grigio ornati da semplici decorazioni floreali. Entrambe le cappelle sono dedicati alla Madonna. In quella di destra, dentro la nicchia, trova posto la statua della MADONNA DI FATIMA arrivata a Marineo il 28 agosto 1946 per interessamento del Sig. Arnone e moglie che per decenni hanno avuto cura della chiesa; sotto la mensa, in senso orizzontale, è collocata un’immagine, in gesso, di S.ROSALIA. Nella cappella di sinistra, sempre dentro la nicchia, trova posto la statua in cartapesta dell’ADDOLORATA vestita con abito e mantello nero con in testa, un semplice taddema in argento. Sotto la mensa, in senso orizzontale, è collocata una statua della MADONNA che fino ai primi anni del novecento si trovava in una cappella (non più esistente) edificata in contrada “Branno”.
La scala che conduceva alla cripta usata, nel secolo scorso, come cella carceraria, si trovava sul pavimento lungo la parete destra prima di arrivare all’arco trionfale.
Secondo quanto riporta il verbale di apertura della chiesa redatto nell’anno 1900, le dimensioni della navata di allora coincidono con quelle attuali, ma il presbiterio aveva tre aperture, quella di destra permetteva il passaggio nel corridoio del Monastero e quella di sinistra immetteva in un lungo balcone coperto che conduceva, da un lato, al nuovo campanile e dall’altro al prospetto posteriore della chiesa da dove, mediante un passaggio si arrivava dietro l’altare principale della chiesa. Il balcone era chiuso con tettoia di cui esistono ancora delle tracce sulla parete esterna. Il vasto ambiente che attualmente si trova oltre il nuovo campanile e l’attuale sacrestia, furono realizzati negli anni sessanta del novecento.
Nella parete di fondo della chiesa, in una grande nicchia, è collocato il CROCEFISSO in legno dipinto del XVI secolo di autore ignoto. La composizione si articola dentro una forma circolare. E’ una immagine che sembra rozza e grossolana, con braccia lunghe e mani e piedi sproporzionati rispetto al resto della figura.
Dal punto di vista estetico si presenta piuttosto complessa e di non facile comprensione a causa dei suddetti elementi che sembrerebbero difetti formali, ma che invece contribuiscono ad accentuare il dramma della Crocifissione.
Non si sa di preciso se è stata realizzata a Marineo o se proviene da fuori. Secondo la tradizione la realizzazione dell’opera è dovuta a uno dei monaci Olivetani e si racconta anche che il monaco, dopo avere scolpito il corpo di Cristo, si sia trovato in difficoltà nel realizzare il volto che ha trovato scolpito, per miracolo, il giorno successivo.
La certezza che oggi abbiamo è che ci troviamo di fronte all’opera di uno scultore autodidatta che, come tutti gli scultori con un innato talento artistico e che si sono formati da se, ha una propria interpretazione riguardo alle proporzioni della figura umana. La scultura rivela che l’autore era dotato di quell’estro creativo capace di imprimere, nella sua opera, quelle caratteristiche particolari che permettono di riconoscerla come un genuino frutto della creatività della mente umana, al di fuori di qualsiasi influenza esterna.
E’ una scultura che, come tutte le opere d’arte, suscita emozioni e possiede un fascino tutto particolare. In un primo momento fa paura, in un secondo attira il visitatore con una forza magnetica tale da affascinarlo al punto di volere a tutti i costi scoprire il mistero: più l’osservatore contempla più si sente attirato.
Significativo si presenta il volto rappresentato nel momento in cui Cristo sta per spirare, esprime sia la tensione nervosa dell’ultimo momento vitale sia l’invito a partecipare al suo immane dolore rivelato dagli occhi semichiusi e dalla bocca aperta. Uno stato d’animo completamente diverso da quello che esprime l’immagine del Crocefisso della chiesa di S.Antonino.
L’opera rispecchia in pieno il momento più drammatico della Crocifissione e da questo punto di vista, si presenta come la più significativa scultura del paese.
Sotto il Crocifisso, distaccato dalla parete, in origine si trovava l’altare principale in marmi policromi che oggi si trova nell’oratorio dei Mastri. L’altare attuale risale al 1900, donato dalla famiglia Di Salvo, quando la chiesa fu riattivata. E’ stato realizzato in marmi policromi, ed è decorato con pannelli rettangolari a rilievo che presentano i simboli della Crocifissione: i dadi con i quali i soldati tirarono a sorte la tunica di Cristo, la corona di spine e i chiodi.
Prima degli ultimi restauri del 1984, nelle pareti laterali del presbiterio, si trovavano due grandi tele ad olio di stile neoclassico, realizzate nell’ottocento da autori ignoti. Per il momento si trovano depositati in sacrestia in attesa di restauro e di nuova sistemazione. Sono in uno stato di degrado avanzato per cui necessitano di un urgente restauro per salvare quello che resta. Raffigurano: una il SACRIFICIO DI ISACCO e una la MADONNA, S.CIRO E S.ROSALIA (Fig.31).
Quest’ultima a causa di una non regolare conservazione e soprattutto di una carente preparazione della tela, si è molto deteriorata, tanto che le figure non si distinguono chiaramente perché, in alcune zone, il colore si è staccato completamente e in altre è ossidato.
E’ un’opera di discreta fattura e presenta una tipica composizione piramidale. La figura della Madonna occupa la parte alta del dipinto ed è rappresentata su una nuvola con la mezza luna e le mani sovrapposte sul petto.
Sulla sua destra si trovano due angeli di cui uno addita la Madonna e l’altro sostiene un giglio, simbolo riferito alla stessa Madonna che è circondata da teste di putti con a centro la colomba dello Spirito Santo. Il movimento e la posizione dei putti, rievocano gli scorci del secolo precedente.
In basso sulla destra l’attenzione è attirata dalla figura di S.Rosalia in estasi nel contemplare la Vergine in gloria. La Santa è riconoscibile dalla corona di rose sulla testa e dal volto grazioso, delicato e raffinato che come bellezza supera quello della Madonna; è rappresentata seduta, in posizione frontale e con la mano destra poggiata sul petto.
S.Ciro che occupa la parte di sinistra, è rappresentato di profilo con le braccia aperte su una linea obliqua che accentua l’atteggiamento di meraviglia del Santo mentre contempla la figura della Vergine.
Al centro di queste due ultime figure, in primo piano, si distingue quella sorridente e paffuta di un putto che ha la mano destra poggiata su un libro con la scritta “S.Ciro” e tiene, con la sinistra, la palma del martirio. A causa del deterioramento della tela, soprattutto nella parte centrale, non è possibile distinguere altri particolari.
Su questa opera non si hanno notizie storiche; possiamo solo dedurre, dalla presenza della figura di S.Ciro, che la tela fu realizzata per Marineo.
Dopo la riattivazione, la chiesa è stata decorata con sei pitture su tela applicate sulle pareti e realizzate, nei primi anni del novecento, da un autore che li ha firmate con una sigla non facilmente decifrabile. Tre li troviamo nella volta: VELO DELLA VERONICA, la DEPOSIZIONE e LA RESURREZIONE; una sull’arco trionfale con due angeli che reggono un festone con la scritta “Redemptor Omnium”; un’altra nella parte alta della parete di fondo con la figura del PADRE ETERNO e un’altra ancora nella nicchia del Crocifisso con le figure della MADONNA E DELLA MADDALENA.

Chiesa Madre

chiesa madreLa chiesa di S.Maria, per le sue modeste dimensioni, non era sufficiente per potere accogliere i fedeli sempre più numerosi. Di questo il Marchese Gilberto se ne era reso conto subito dopo la edificazione del monastero e, mentre si costruivano le case e il palazzo, pensò anche alla edificazione della nuova Matrice che fu eretta in periferia in un punto pianeggiante che meglio si prestava ad una così vasta costruzione. La chiesa fu dedicata a S.Giorgio e poi, nel 1665 a S.Ciro.
Il Marchese Gilberto Beccadelli si impegnò al massimo in quest’opera e nel costruirla, non solo pensò alle esigenze della popolazione del suo tempo, ma anche a quelle delle future generazioni, infatti, ancora oggi, per quanto riguarda le dimensioni e quindi la capienza, la Matrice è sufficientemente capace.
Ha voluto realizzare qualcosa di grande in perfetta coerenza con i canoni della corrente artistica del suo tempo. Ha impegnato le maestranze e gli architetti più rappresentativi a disposizione nell’ambiente per creare un’opera con caratteristiche tardo rinascimentali mantenute fino agli inizi del XIX secolo quando fu trasformata nelle attuali forme che richiamano quelle neoclassiche e tardo settecentesche. Nonostante tutto, la Matrice, rimane sempre il monumento esteticamente e artisticamente più valido di tutto il paese.
La slanciata volta a botte; le robuste colonne monolitiche cavate dalla viva roccia, probabilmente di Rocca Busambra; gli archi poggianti sulle colonne; la pianta a croce latina; l’ampiezza della chiesa che, oggi, ha una cubatura di 4518 metri, una superficie di 490 metri quadri con la navata centrale di metri 56×6,50; le tre navate; le volte a crociera delle navate laterali e l’abside; tutti elementi visibili in origine, ci fanno capire che il massimo monumento religioso e architettonico di Marineo, si inseriva perfettamente nel contesto artistico cinquecentesco. Ma la sovrapposizione degli elementi di stile diverso avvenuta nella prima metà dell’ottocento, purtroppo, ha degradato in modo irreversibile l’artistico monumento.
La storia della nuova Matrice di Marineo oggi si presenta piuttosto complessa e non semplice da ricostruire per il fatto che molto poco è stato documentato sul susseguirsi delle varie modifiche, interne ed esterne, effettuate nei secoli successivi alla sua edificazione. Per il momento la documentazione su cui si può attingere e da cui si può avere un certo quadro storico e cronologico della costruzione, ci viene presentata proprio dalla stessa opera nella sovrapposizione degli elementi architettonici e decorativi di vari stili ben visibili in tutto l’ambiente interno. La sola notizia storica dell’archivio parrocchiale riguardante la Matrice, possiamo trovarla nel registro in cui sono registrati battesimi e matrimoni, a cominciare dal 1562, venivano celebrati nella chiesa di S.Giorgio e non più in quella di S.Maria.
Della primitiva configurazione strutturale cinquecentesca, ultimata nel 1562, si vede ben poco. Originariamente la chiesa aveva un aspetto completamente diverso da quello odierno. Ma prima di parlare di questo, esaminiamone le odierne principali caratteristiche.

La Matrice sorge su un basamento rialzato adibito, in parte, a catacomba. La sua forma esterna è molto comune: tre navate (di cui quella centrale più alta) con copertura a spioventi ed il campanile sormontato da una piccola cupola. Sulle coperture delle navate laterali, in corrispondenza delle estremità superiori delle campate, poggiano dei robusti contrafforti ad arco rovesciato aderenti alla copertura delle navate laterali e alle pareti esterne della navata centrale, la loro funzione è quella di contenere la spinta laterale della volta.
Il prospetto principale a “salienti” con una impostazione tardo cinquecentesca, è suddiviso (in senso verticale) da due zone sovrapposte, decorate entrambe da coppie di lesene neoclassiche scanalate a spigolo smussato con capitelli ionici (quelli della zona inferiore) e corinzi (quelli della zona superiore). Questa ultima zona, innalzata sulla parte centrale di quella sottostante, si conclude con un frontone che racchiude, nel timpano, la corona con le palme: simbolo del martirio di S.Ciro.
Nel prospetto laterale, dal lato del Corso dei Mille, si può vedere la copia della barocca CERAMICA DI S.CIRO di m.2,10×4,20 circa realizzata a Palermo nella prima metà del settecento da autori ignoti.
Nel XVIII secolo, oltre a dei valenti marmorari che hanno arricchito di decorazioni a rilievo e ad intarsio chiese e palazzi, a Palermo e in altre città siciliane come Caltagirone e Trapani, hanno operato anche valenti ceramisti autori di una vasta produzione di piatti, vasi di varie forme per molteplici usi (numerosi sono quelli eseguiti per le farmacie come contenitori di farmaci) e mattonelle con semplici decorazioni floreali e geometriche, istoriate e figurate per rivestire pavimenti o pareti come nel nostro caso.
L’opera di Marineo è composta da mattonelle quadrate di cm 20×20 circa e raffigura il Santo che regge un libro nella mano destra e nella sinistra, poggiata sul petto, la palma. La statica figura che si erge su un piedistallo, è rappresentata in posizione di riposo con la gamba destra piegata ed è vestita da un doppio panneggio formato da una veste che arriva all’altezza delle cosce e da un mantello che avvolge parte della figura soprattutto dal lato destro. Ai piedi porta leggere calzature di foggia romana. S.Ciro è collocato dentro una nicchia coronata da un arco a tutto sesto e fiancheggiata da due stipiti decorati da lesene e da motivi floreali.
Nella parte inferiore, incorniciata da motivi decorativi barocchi, c’è una lapide rettangolare su cui si legge: “Divo Ciro egregio martire di Cristo patrono dei Marinesi”.
Al disopra della nicchia, fiancheggiata da putti alati, si trova una bizzarra decorazione formata da elementi tipicamente barocchi che rispecchiano in pieno lo stile del tempo riscontrabili anche nel coevo altare, del medesimo Santo, collocato all’interno della chiesa, alle spalle della ceramica.
La prevalenza degli elementi architettonici, nello spazio attorno alla figura del Santo, rivela (nella fase di progettazione dell’opera) l’intervento di un architetto che ha curato il disegno. Fino a questo momento, riguardo agli autori, non si sono trovati elementi che ci possono permettere una giusta attribuzione, una ipotesi, alquanto discutibile, è stata avanzata solo per quanto riguarda l’esecutore delle mattonelle.
Come tutte le opere d’arte poste all’esterno, anche questa, dopo quasi tre secoli dalla sua realizzazione, è stata colpita dall’inquinamento: il cancro, da tempo, aveva attaccato le mattonelle provocando lo stacco dello smalto. Il fenomeno che negli anni ottanta del novecento era agli inizi, nell’anno 2000 si trovava in una fase avanzata, le piccole chiazze di colore mancante si erano allargate e senza un idoneo intervento, in breve tempo, sarebbero diventate sempre più grandi e avrebbero invaso tutta la ceramica. Oltre allo stacco dello smalto si era presentato anche il dissestamento delle mattonelle con il rischio di staccarsi dalla parete e frantumarsi a terra. Finalmente dopo vari appelli, dopo l’interessamento delle Amministrazioni Spataro e Pernice prima, e Corrado dopo e con il finanziamento della Regione, nel mese di agosto dell’anno 2000, sono state staccate le mattonelle in ceramica per essere restaurate. Era stato accolto anche il suggerimento avanzato sulla prima edizione del presente volume del 1998, di applicare, al posto della ceramica del settecento, una copia (già collocata nello stesso mese di agosto) della medesima e sistemare, l’originale, in un luogo riparato. Purtroppo nel maggio del 2001, è stata staccata la copia e ricollocata la ceramica originale restaurata, decisione che certamente non è stata quella più conveniente per la buona conservazione dell’opera.
Accanto alla ceramica trovasi un ingresso per accedere agli uffici parrocchiali, la porta è stata aperta dall’arciprete Inglima agli inizi del nostro secolo. Si presume che l’attuale scala sia stata realizzata ampliando una preesistente scaletta interna che conduceva nella zona catacombale.
Internamente la Matrice ha una pianta a croce latina con tre navate, sei campate e il transetto. La navata centrale, limitata da pilastri, è più alta delle due laterali ed è coperta da una volta a botte con arco a tutto sesto poggiante su un cornicione aggettante cinquecentesco con semplici beccatelli. La volta ha un accentuato slancio verticale dovuto al prolungamento delle sue basi verso il cornicione, ed è decorata da tre file di pannelli a stucchi con motivi floreali racchiusi da doppia cornice con ovuli. I pannelli delle due file laterali di forma rettangolare, presentano tutti lo stesso motivo decorativo, mentre quelli della fila centrale di forma quadrangolare, presentano motivi diversi l’uno dall’altro.
I pannelli, dentro lo spazio rettangolare delle campate, sono raggruppati a tre a tre formando, lungo la superficie della volta, varie terne che sono separate da fasce (con file di rosette) che, estendendosi da una base all’altra della volta, racchiudono anche le finestre dalle quali filtra la quantità di luce sufficiente per esaltare in modo perfetto la qualità degli stucchi dorati.
Gli stucchi della volta centrale compresa la raggiera della parete di fondo, tranne quelli della cupola, sono stati realizzati e applicati da Francesco Grasso di Marineo tra il 1860 e il 1870.
Le campate delle navate laterali sono coperte da ampi cassettoni quadrangolari che racchiudono pannelli anch’essi quadrangolari ma di dimensioni più ridotte. I pannelli racchiudono stucchi fatti ad imitazione di quelli della volta centrale e presentano motivi decorativi diversi l’uno dall’altro. Tutti gli stucchi delle navate laterali compresi quelli delle cappelle, sono stati realizzati e applicati da Domenico Guarino di Campofelice di Fitalia (scolaro di Antonino Cangialosi genero di Francesco Grasso), tra il 1923 e il 1927.
Nell’incrocio della navata centrale e di quella trasversale, vi è la cupola visibile solo dall’interno della chiesa. Si presenta priva di lanterna, con calotta e uno stretto tamburo dove si legge in latino: “Chi violerà il tempio del Signore sarà da Lui disperso.” La calotta è decorata con riquadri a stucco disposti simmetricamente, ognuno dei quali racchiude un motivo floreale. I riquadri sono stati applicati da un nipote di Francesco Grasso, Domenico Cangialosi figlio di Antonino, lo stesso che con gli stessi motivi ha decorato il catino absidale della cappella del S.Cuore demolita nel 1963 quando tutta la cappella fu spostata più avanti nella posizione attuale. E’ stata realizzata da Domenico Cangialosi anche la raggiera che si trova nella nicchia del fonte battesimale.
Sui quattro pennacchi che collegano la cupola ai pilastri principali, nella seconda metà dell’ottocento, da autore sconosciuto, sono state affrescate le figure dei quattro Evangelisti con i rispettivi simboli. Buone le composizioni delle figure di stile neoclassico che bene si inseriscono nelle forme triangolari dei pennacchi.
Nella prima campata della navata centrale dopo la cupola, si trovano, lateralmente (dove attualmente sono collocate le canne dell’organo), due matronei con volta a crociera e archi a tutto sesto che si affacciano nella navata. Uno, quello di sinistra, è ancora intatto grazie al fatto che ospita le canne dell’organo fatto collocare da Mons.Raineri agli inizi degli anni trenta del novecento. Dell’altro, è rimasto solo l’arco a tutto sesto visibile dalla navata.
I matronei erano dei vani della chiesa destinati alla nobiltà che anche durante le funzioni religiose non gradiva mescolarsi con il popolo. In realtà questi piccoli ambienti furono usati nelle prime chiese cristiane e generalmente venivano riservati alle donne. Nel XVI secolo quando fu costruita questa chiesa, erano già fuori moda e quelli che venivano realizzati, erano ridotti e avevano una funzione semplicemente decorativa come quelli che troviamo nella chiesa del Collegio. A quanto pare, però, dalla la loro dimensione e posizione, i matronei della matrice, erano funzionanti e utilizzati per assistere alle sacre liturgie.
La navata centrale, oggi, è suddivisa in sei campate, originariamente era composta da cinque: quattro dall’ingresso alla navata trasversale e una oltre che racchiudeva il presbiterio con l’altare maggiore e l’abside. Nella prima metà dell’ottocento, l’aggiunta della sesta campata a prolungamento del presbiterio, ha creato una certa disarmonia nell’estetica della composizione interna della costruzione, ma ha esteso la navata aumentando la capienza della chiesa.
Della modifica non esistono documenti scritti, ci viene rivelata solo dai vari elementi decorativi e architettonici visibili nell’interno della chiesa: nella volta centrale si notano quattro fasce rettangolari sporgenti poste trasversalmente che fanno parte della struttura portante e quindi nate con essa. Una fascia la troviamo sull’ingresso principale (anche se è poco evidente per la sovrapposizione della successiva decorazione), due delimitano la cupola e un’altra tra la cupola e la parete di fondo. Secondo la disposizione questa ultima fascia chiudeva, in origine, la navata centrale.
Inoltre la modifica si è notata anche quando Mons.Raineri ha fatto erigere nel 1967, in seguito alle nuove disposizioni liturgiche del Concilio Vaticano II del 1962, il nuovo altare centrale. Durante gli scavi, per rifare tutto il pavimento della chiesa (secondo le informazioni raccolte), sono venuti alla luce, proprio in corrispondenza della fascia rettangolare che delimita la prima campata dopo la cupola, resti di un consistente muro con abside che originariamente doveva arrivare alla volta delimitando così da questo lato la navata centrale.
E ancora c’è da notare che i tiranti in ferro collocati durante la costruzione della chiesa, si trovano solo nella parte della volta originaria.
A supporto di questa tesi c’è anche la presenza dei matronei la cui posizione doveva essere in un punto da dove comodamente si poteva assistere alle sacre liturgie.
Riguardo alle altre modifiche presenti nell’interno della chiesa, dobbiamo prendere in considerazione due fattori essenziali: la presenza di elementi tardo settecenteschi e neoclassici nella composizione cinquecentesca della struttura e la frana dell’anno 1800 che ha distrutto la chiesa di S.Antonio Abate e buona parte del quartiere a questo Santo dedicato.
Dietro questa dolorosa esperienza, anche se la chiesa non ha mai subito danni per calamità naturali, i marinesi hanno pensato ugualmente di salvaguardare il più importante monumento religioso del paese consolidandone le strutture portanti verticali e orizzontali della navata centrale. Nelle navate laterali, invece, per conformità di stile, i lavori furono solo di carattere estetico e quindi sono state coperte le crociere.
E’ questo il motivo per cui oggi, come elementi di sostegno, troviamo massicci pilastri e architravi, ma al loro posto, in origine, si trovavano colonne e archi a tutto sesto.
La certezza di questa affermazione ci viene data da due fonti ineccepibili: l’opuscolo sulla festa di S.Ciro e i lavori di restauro del 1992.
Nell’opuscolo sulla festa di S.Ciro, conservato nella biblioteca comunale di Palermo, fatto stampare dalla Congregazione nel 1746, si legge che nella chiesa, allora erano visibili archi e colonne.
Nel 1992 scrostando la parte inferiore di una faccia di uno dei pilastri della navata laterale di destra, è venuta alla luce la estremità inferiore di una colonna monolitica di ordine tuscanico, di colore avorio, proveniente, probabilmente, dalle cave di Rocca Busambra e poggiante su un basamento cubico anche monolitico di cm.80 di base per 50 di altezza. La robusta colonna realizzata nel Cinquecento, è fornita di base con tori e trochilo (Fig.42).
I restauri ci hanno rivelato anche la poca delicatezza usata nell’imprigionare la colonna dentro gli attuali pilastri: per ridurre di pochi centimetri le dimensioni del pilastro, i nostri predecessori, hanno scheggiato con lo scalpello parte della superficie della colonna riducendone il volume e interrompendone la circonferenza. Trattamento che forse hanno subito anche le altre colonne, per averne la certezza, si dovrebbero effettuare dei saggi.
Inoltre, sempre durante gli stessi lavori di restauro, è venuta alla luce una nicchia di cm 80 x 80 e 180 circa di altezza, coronata da un arco molto scemato fatto con mattoni in terracotta del tipo di quelli usati nel periodo rinascimentale.
La nicchia contiene una vasca a forma rettangolare di cm 80 x 55 x 15, in pietra rossa proveniente, sembra, dalla zona del lato est di Rocca Busambra. La vasca presenta: sul bordo superiore, delle decorazioni lineari incise; al centro, un buco dal diametro di 13 cm circa collegato con un tubo in terracotta che scarica in una condotta e nell’angolo sinistro, un secondo buco più piccolo del precedente.
Enigmatica si presenta la comprensione di tale elemento. Dalle decorazioni incise si evince che la vasca è stata realizzata nel tardo cinquecento e per dimensioni poteva essere adibita sia come acquasantiera che come fonte battesimale, i due fori al centro e all’angolo, considerando il modo rozzo e rudimentale della manifattura, sono stati aperti in un periodo successivo; la nicchia, forse è stata murata durante i lavori di modifiche della chiesa nella prima metà dell’ottocento; per cui la vasca, era un elemento funzionante prima del 1800. Ci si chiede: A che cosa serviva tale vasca in una nicchia all’ingresso laterale della chiesa?
Data la conformazione ristretta e incavata della nicchia, la vasca non poteva essere usata come fonte battesimale e con lo scarico e il buco nell’angolo, non poteva neanche essere usata come acquasantiera. C’è da dire però che come detto, i buchi sono stati praticati in epoca successiva alla sua realizzazione e pertanto si può ipotizzare che in origine, la vasca veniva adoperata come acquasantiera all’ingresso laterale della chiesa dato che, esattamente nel lato opposto, esisteva un’altra nicchia identica, con la stessa funzione, trasformata ad ingresso, nel secolo scorso quando fu realizzato il terrazzino esterno dal lato del Corso dei Mille. Dopo l’apertura dei buchi, la vasca, potrebbe essere stata usata come lavandino. Le due acquasantiere attuali, sono di stile neoclassico e quindi collocate nella seconda metà dell’ottocento dopo le modifiche.
La scoperta della colonna e della nicchia con la vasca nel 1992, si è rivelata di un certo interesse per la conoscenza del curriculum storico del nostro paese, ma soprattutto ha contribuito a farci meglio comprendere come era la chiesa fatta costruire da Gilberto Beccadelli e ci ha rivelato anche due situazioni contrastanti del nostro passato: da una parte, la delicatezza e la cura dei nostri antenati del cinquecento nell’edificare la nuova Matrice con le colonne cavate dalla viva roccia e trasportate con grande fatica a Marineo e dall’altra, il danneggiamento irreversibile di tali elementi di sostegno, da parte dei nostri predecessori dell’ottocento.

Nella copertura delle navate laterali oggi si trovano ampi cassettoni quadrangolari della stessa ampiezza delle rispettive campate; in origine si vedevano le crociere (elementi portanti assieme agli archi) come oggi possiamo ancora vedere nella volta di uno dei matronei non ancora manomesso, la copertura del matroneo non è altro che una parte della copertura della corrispondente navata laterale. A rivelarci la presenza delle crociere sono anche i tiranti in ferro che affiorano dagli architravi che congiungono i pilastri alle pareti.
I tiranti posti alla base della volta centrale, hanno una loro funzione ben precisa: servono ad evitare che la volta con il suo peso si possa aprire e spingere le pareti verso l’esterno; gli stessi elementi posti sotto gli architravi, come nelle navate laterali, non hanno nessuna funzione. Ciò significa che gli elementi in ferro delle navate laterali, non fanno parte degli attuali architravi che sono fittizi, ma degli archi che sostengono le crociere che oggi sono nascosti dai cassettoni.
Da quanto detto possiamo ben capire che la chiesa in origine era completamente diversa da quella odierna: con colonne al posto di pilastri, con archi al posto di architravi, con crociere al posto di cassettoni e con abside in fondo alla navata centrale. Per la prima volta, in base alle poche notizie storiche e agli elementi strutturali e decorativi esistenti, si è cercato di fare una ricostruzione grafica della Matrice Beccadelliana così come è stata ultimata nella seconda metà del XVI secolo.
Riguardo alle modifiche effettuate nell’interno della chiesa, come detto in precedenza, non esiste una documentazione da cui si possono ricavare cause, date e ordine; per cui, per saperne di più, oltre ad esaminare i vari elementi decorativi e strutturali della chiesa, dobbiamo anche scrutare nella storia della parrocchia.
Se la decorazione a stucco della volta, come si apprende dalle didascalie sotto i ritratti dei Parroci, è stata fatta nel decennio 1860-70, vuol dire che a questa data la chiesa era stata già prolungata. Infatti in tutta la decorazione della volta esiste una unità nella maniera e nella esecuzione da farci intuire che è stato unico l’ideatore e unico il periodo di realizzazione.
La causa invece dell’ampliamento del presbiterio, è da ricercare nell’elevato numero di sacerdoti del tempo. Il censimento del 1748, ne registrava sessanta a Marineo. I lavori di ampliamento, a quanto pare, iniziarono in occasione del consolidamento della chiesa dopo la frana dell’anno 1800 e di seguito furono anche effettuati i lavori di modifica di tutto l’interno per uniformare tutta la chiesa ad un unico stile che alla fine è risultato completamente diverso da quello originario. L’ultima opera di modifica più consistente è stata la copertura delle crociere delle navate laterali.
Sappiamo inoltre, sempre attraverso le didascalie, che i Parroci che fecero eseguire più lavori nella chiesa furono: Mons. Ignazio Valenti dal 1808 al 1837; Mons. Emanuele Arcoleo dal 1840 al 1866 e Mons. Andrea Oliva dal 1866 al 1873. Dietro interessamento di quest’ultimo, furono ultimati gli stucchi della volta centrale.
Dopo le modifiche sono stati realizzati, in stile neoclassico, l’arredamento del presbiterio formato da due file di stalli per lato con, a destra, il sedile principale ancora esistente; il pulpito addossato al pilastro principale di destra e le transenne in marmo bianco e verde che separavano il presbiterio dal resto della navata centrale. Tutti elementi che fino al 1955 esistevano ancora Fu Mons. Raineri che, per meglio raccogliere i giovani delle varie associazioni dentro il presbiterio, li fece togliere.
Oltre al sedile principale di destra, dell’arredamento del presbiterio, oggi restano: i due pannelli in legno ancora ancorati alle pareti; qualche sedile che troviamo al Convento; l’altare maggiore nella parete di fondo in marmo verde e rosso con un rilievo sulla cena di Emmaus nel paliotto e il grande Crocefisso in legno del tardo settecento, dipinto nel secolo successivo, collocato nella parete di fondo sull’altare.
Anche il prospetto principale ha subito un primo rimaneggiamento nell’ottocento, presenta gli stessi elementi neoclassici dell’interno.
Con le modifiche e le aggiunzioni, oggi, la chiesa non si presenta con le stesse proporzioni armoniose del XVI secolo, ma neanche con un aspetto sgradevole, a parte i massicci pilastri che appesantiscono e contrastano con l’insieme, troviamo una decorazione a stucco di un certo valore soprattutto quella della volta centrale. Stucchi che forse pochi marinesi riescono ad apprezzare, non per mancanza di capacità di percezione, ma perché li abbiamo visti fin da piccoli e continuiamo a vederli alla stessa maniera, con indifferenza, anche da grandi. Non c’è mai stato, con gli stucchi, quel primo impatto capace di suscitare delle emozioni, cosa che, ad esempio, succede ai turisti che vedono la chiesa per la prima volta.
Per capirne veramente il valore, dovremmo osservarli come se fosse la prima volta. Notare i particolari e tutti quei motivi floreali e geometrici che ci ricordano quelli dello stile Arabesco e quelli dello stile Liberty (stile, quest’ultimo, che si affermerà qualche decennio più tardi) con qualche reminiscenza Rococò. Si presentano con eleganza e raffinatezza di movimenti e si articolano con grazia dentro le inquadrature delle cornici formando delle composizioni ben definite e ben equilibrate.
I riquadri del soffitto delle navate laterali furono realizzati con lo stesso carattere di quelli della volta centrale, ma non presentano la stessa eleganza e la stessa sintesi, in realtà sono più grossolani, più massicci, meno aggraziati e compositivamente più pesanti. E’ chiaro quindi che questi pannelli come gli stucchi delle cappelle, delle navate, dei pilastri e del presbiterio, sono di mano diversa, infatti sono stati eseguiti e applicati da Domenico Guarino per interessamento di Mons.Raineri tra il 1923 e il 1927, periodo in cui, con gli stucchi della cupola realizzati da Domenico Cangialosi, tutta la decorazione della chiesa fu definita e poi, da Marco Spinella di Marineo, colorata con colori a tempera e indorata con l’applicazione di sottili lamine d’oro.
E’ certo che sia Francesco Grasso che Domenico Guarino e Domenico Cangialosi, nel realizzare gli stucchi della Matrice, si sono ispirati a quelli della chiesa di S.Michele, realizzati attorno alla metà dell’ottocento e a quelli della chiesa di Tagliavia, realizzati da G.Battista Noto nel 1844. Evidenti sono i legami tra gli elementi decorativi delle tre chiese.
A conclusione dei lavori, due lapidi in marmo (non più esistenti) che erano poste tra le canne dell’organo e i pilastri principali, ricordavano: una la conclusione dei lavori e “lo splendore degli stucchi dorati, scintillanti dai riflessi delle lampadine elettriche appena collocate” e l’altra, il finanziamento per i lavori di restauro e di doratura degli stucchi da parte dei Marinesi emigrati in America e che la raccolta dei fondi fu curata dai Signori Oliva e Briganti.
Secondo informazioni raccolte, le lapidi rovesciate e con altre iscrizioni, oggi, sono applicate ai lati dell’ingresso principale della chiesa.

In genere, nel costruire un tempio, luogo di preghiera, la prima considerazione che viene fatta è quella di concepire un ambiente semplice e armonioso che possa suscita serenità e raccoglimento per favorire la comunicazione dell’orante con Dio.
Tale si presentava la Matrice in origine quando tutti gli elementi, componenti l’opera, rispecchiavano il carattere di un unico stile.
Nel corso dei secoli a cominciare dalla collocazione dell’altare di S.Ciro, in stile barocco, nel transetto sinistro, l’armonia dell’ambiente cominciò ad essere turbata e la situazione si aggravò maggiormente quando, a causa della frana, anche se non necessarie perché la chiesa non è stata mai danneggiata da fenomeni naturali, vengono inserite le fredde sagome squadrate a forma di parallelepipedo che separano le navate. Infatti subito dopo, notata la forte discordanza tra gli elementi architettonici, i nostri predecessori hanno cercato di attenuare la disarmonia modificando tutto l’interno e cercando di armonizzare l’ambiente mediante la decorazione a stucchi.
Intento riuscito solo in parte in quanto resta sempre l’accavallamento dei vari stili che, anche se non si disturbano eccessivamente, non raggiungono nemmeno l’armonia originaria.
Per soddisfare esigenze più o meno giustificate, anche nei periodi successivi a questi eventi, la chiesa ha subito modifiche. Mons. Raineri aveva una particolare attenzione per il “Tempio di Dio” come Lui stesso definiva la Matrice, per essa ha fatto molto, ma non tutte le operazioni che ha effettuato nella chiesa avevano il fine di armonizzare e conservare quello che nella chiesa esisteva, più che altro il suo intento mirava ad un fatto logistico oltre che alle varie riparazioni necessarie della chiesa. Il pulpito, il coro e la cappella del Sacro Cuore, sono stati rimossi durante la sua gestione.
Dopo le nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, nel 1967, oltre a rifare tutto il pavimento della chiesa, Mons. Raineri aveva fatto collocare, al centro della navata, il nuovo altare centrale, la cui mensa era sostenuta da otto colonnine di marmo rosso. Non era un’opera d’arte, ma, dal punto di vista estetico, non disturbava l’ambiente. Al contrario gli attuali elementi introdotti nel giugno del 1994 in sostituzione dei precedenti, fanno parte a se e non si coordinano con l’insieme, ma quello che maggiormente turba l’ambiente è l’elemento cromatico e il leggio. Anche il rilievo tardo barocco applicato nel paliotto contrasta con la modernità degli elementi compositivi dell’altare. Scultura, questa, che si rivela di una certa importanza, rappresenta la CENA DI EMMAUS dentro una cornice spezzata, intarsiata con marmi policromi e decorata, in basso, da rilievi con motivi rococò. L’insieme delle tre figure, richiamano la classica composizione rettangolare delle cene di Emmaus di vari autori: le due figure degli apostoli ai margini laterali del tavolo e Cristo al centro. Il momento rappresentato, è quello in cui avviene la benedizione del pane. E’ un’opera di buona fattura del settecento e presenta determinati elementi stilistici da farci ritenere che sia stata realizzata a Palermo o nel palermitano.
Anche esternamente, nel corso dei secoli, la costruzione beccadelliana, è stata lesa nella sua originaria armonia. Si ricorda la sovrapposizione delle lesene neoclassiche del 1875 sul prospetto principale e il necessario restauro del 1991 quando tutto l’esterno della chiesa è stato rivestito da un intonaco bianco che non armonizza con il carattere cinquecentesco della costruzione.
Per concludere resta da dire che la chiesa, internamente, ha bisogno di un accurato controllo di tutte le sue varie parti. Ultimamente, nel settembre del 1994, si è staccato uno dei beccatelli del cornicione.
Di una restauro hanno bisogno anche gli stucchi in parte danneggiati dalla infiltrazione di acqua piovana e dall’usura del tempo, molti particolari non esistono più ed è necessario rifarli. E’ da quarant’anni che non si sono effettuati interventi, l’ultimo restauro risale agli inizi degli anni sessanta per interessamento di Mons.Raineri che a sue spese ha fatto restaurare gli stucchi della volta del transetto sinistro.

IL CASTELLO BECCADELLI

 

Castello Marineo ed il suo castello sorgono su una valle di roccia calcarea che si protende trasversalmente nella valle dell’Euterio fin quasi ad ostruirla e determinandovi una gola scoscesa.
Di fianco su una parte rocciosa a strapiombo sulla valle,si erge il castello. Con certezza si sa che la prima e più importante costruzione avvenne subito dopo l’epilogo vittorioso che Carlo D’Angio sostenne contro la casa Sveva per la conquista della Sicilia e dell’Italia Meridionale.
Poiché il suo potere e la sua fortuna si basava sulla sua forza militare egli coprì i suoi territori di castelli.
Questi sorsero nei punti di notevole interesse strategico ed appunto in questa occasione e con questi scopi venne innalzato il nostro castello,a riprove del sempre importante punto strategico che era Rocca Busambra.2285993364_d8a95d010a_o (1)
Al tramonto della potenza Angioina, scacciata dalla Sicilia in seguito al moto popolare dei Vespri, segue il dominio della casa D’Aragona, un periodo buio caratterizzato dall’anarchia baronale e dalla lotta fraticida.
Il Castello Angioino e il vicino centro urbano, per l’importanza strategica, devono aver partecipato attivamente a questa lotta tra famiglie nobili contro il potere centrale, fino a riportarne danni tali che il nucleo abitato venne cancellato.
Nel XVI secolo l’imperatore Carlo V investiva del feudo di Marineo Francesco Beccatelli Bologni, questore dell’isola e signore di Cefalà e Capaci, il quale nel 1553 dava origine all’attuale Marineo con il costruire cento dimore, seguite presto da altre duecento,fatte costruire dal figlio Gilberto,che nello stesso tempo dava inizio ai lavori di ricostruzione e riparazione dei resti del castello, il quale veniva trasformato in un palazzotto di campagna per un ricco -feudatario, circondato non da possenti mura difensive, ma da capaci granai e da un muro coperto di feritoie sulla rampa di accesso al piano nobile, forma di difesa, non da agguerriti eserciti ma da briganti di strada.
Le superfici dei suoi prospetti alterati e scarificati, la purezza e la semplicità delle linee,concorrono a creare intorno a questo castello un’atmosfera che conquista gli animi. Le mura che si fondono e sfumano con le sottostanti ripide pareti del burrone soddisfano pienamente la visione ancestrale di un castello possente.
Marineo castello 1 Il castello può divenire la chiave dì volta della struttura turistica del paese, insieme agli aglomerati urbani che lo circondano, da una parte hanno l’aspetto e la consistenza di un borgo medievale, perché a causa della fatiscenza sono stati abbandonati per umili scopi, proprio questo deprezzamento ha salvato questo breve scorcio di paesaggio autentico ed originale risalente all’origine del paese.

Questo paesaggio, messo in luce con cauti ed accorti restauri che non alterino l’aspetto, potrebbe diventare la naturale cornice di complemento del castello, ed attirare con la sua suggestiva scenografia il turista, desideroso di ritornare indietro nel tempo, alla ricerca del puro e genuino in contrapposizione alla vita convulsa della civiltà moderna. Anche la piazza si presta, dopo un buon ripristino, alla programmazione di spettacoli folkloristici del ricco repertorio locale e di rappresentazioni teatrali.

 

Turismo

marineo roccaMARINEO

Il centro abitato di Marineo si trova a 30 Km da Palermo, a 500 metri s.l.m. ed e’ caratterizzato da un’imponente rupe, la Rocca (chiamata dai poeti “Dente canino della Sicilia” o “Tomba di Polifemo”).
La costruzione dell’attuale centro si deve a Francesco Beccadelli Bologna, al quale nel 1550 venne concessa, dietro pagamento di una forte somma, la “licentia populandi” dall’imperatore Carlo V. Con essa otteneva il diritto di ricostruire un insediamento.
Sulla collina denominata la “Montagnola”, accanto all’odierno centro abitato, si e’ svolta una lunghissima fase di civilta’, prima che sorgesse il paese attuale: la collina alta 623 m sul livello del mare, domina il fiume Eleuterio ed offriva all’insediamento umano un agevole difesa grazie alla presenza di pareti inespugnabili in direzione Nord-Est, lasciando libero un unico facile accesso. L’antico abitato con alterne fortune ebbe vita dall’VIII secolo a.C. al XIII sec.
Nella meta’ del XIV secolo a margine delle lotte fra fazione latina e catalana in Sicilia, il sito venne abbandonato e la citta’ scomparve.

ESCURSIONI

La Chiesetta della Madunnuzza. Sorge a circa un chilometro dal centro abitato in localita’ omonima e a poca distanza dal fiume Eleutero. E’una piccola chiesetta ad unica navata dedicata a Santa Maria della pieta’ o del Daino ed e’ immersa nel verde di una macchia mediterranea con diverse querce secolari. L’8 settembre si festeggia il culto della Madunnuzza con pellegrinaggi dei fedeli e giornata di festa in loco.

I mulini  dell’ Eleutero. Diversi mulini, oggi ridotti a ruderi, si trovano lungo il corso del fiume Eleutero immersi in una natura lussureggiante. La loro presenza e’ segnalata a partire dal 937 all’epoca della conquista araba della Sicilia. Operanti fino a qualche decennio fa, conservano ancora il fascino della civilta’ contadina a cui erano intimamente legati. Percorrendo la strada che da Marineo porta a Risalaimi si incontrano le Case di Risalaimi (interessante complesso del XIII sec.) Nel XV sec. le pareti della cappella annessa alla masseria vennero affrescate da Tommaso de Vigilia (gli affreschi, successivamente staccati, si trovano esposti nel Museo Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo). Proseguendo verso Misilmeri si incontra il Ponte della Fabbrica (costruito nel 1581 a servizio dell’ex regia trazzera che collegava Palermo con l’entroterra). Piu’ avanti si incontrano due mulini: il Mulinello e l’Ex Mulino Nuovo. Sul versante meridionale di monte Tesoro si trova l’Ex Mulino di Mezzo (un mulino capace di macinare fino a sette tonnellate giornaliere di grano). Altri mulini si incontrano risalendo il fiume verso l’entroterra.

Le gole dello Stretto. Escursione molto affascinante ma difficile e faticosa. Si risale il fiume Eleutero partendo dal “ponte sullo stretto” nell’omonima localita’. Guadagnato il letto del fiume attraverso irto sentiero si sale controcorrente attraverso una gola scavata fra due massicci collinari coperta da una ricca vegetazione spontanea che costituisce peraltro un importante rifugio di una fauna acquatica e terricola. Superate le strette gole si raggiunge l’Ex Mulino Calderone. A questo punto si riprende una strada carrabile. Si puo’ raggiungere la vicina Chiesetta della Madunnuzza (poche centinaia di metri) o raggiungere Marineo (circa un chilometro).

Masseria Acqua del Pioppo, bella ed elegante costruzione di fine 800 a qualche centinaio di metri dalla statale 118 in omonima localita’ fra Marineo e Bolognetta.
Masserria di Parco Vecchio ,interessante costruzione ai margini del bosco della Manca, edificata nel XII sec. e modificata alla fine del quattrocento forse ad opera dei Cavalieri Teutonici, che possedevano anche il casale di Risalaimi, con la costruzione di una chiesetta annessa alla fabbrica. Oggi la masseria si compone di diverse fabbriche disposte ai lati di un cortile rettangolare, una delle quali ospita un interessante ed originale agriturismo che ripropone oltre alle originarie strutture anche gli antichi sapori e le atmosfere della civilta’ contadina. La Masseria costituisce un ottimo punto di partenza per escursioni al Bosco della Manca e nella vicina Santa Cristina Gela.
La Riserva Orientata di Ficuzza. Gli accessi consigliati sono diversi e si trovano tutti a pochi chilometri di distanza da Marineo: sulla provinciale Marineo Godrano in direzione della contrada Massariotta per salire fino a Torre del Bosco o in direzione Serre Suvarita. In localita’ Arcera presso l’omonimo ponte risalendo il vallone Arcera. Particolarmente appassionante risulta la visita della Riserva in Mountain Bike nei diversi periodi dell’anno in percorsi che si inoltrano anche nelle parti piu’ misteriose del bosco. ( contattare la Pro Loco o l’extreme racing team)